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Alzheimer, un farmaco riduce le placche nel cervello: nuove speranze per curare la malattia
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Albina Carbone
Buon consigliere
Albina Carbone
Ultima attività il 02/03/24 alle 10:10
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19 commenti pubblicati | 1 nel forum Malattia di Alzheimer
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Beh...ancora studiano. Ho rialzato mio padre in un mese con un prodotto naturale e loro per fare business propinano prodotti su prodotti ignorando le cose buone...
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Il ricercatore: «Dopo un anno le placche di amiloide sono quasi scomparse». I pazienti trattati avrebbero inoltre mostrato anche un rallentamento del declino cognitivo.
La rivista Nature dedica la copertina a un nuovo farmaco che sarebbe in grado di ridurre in modo significativo l’accumulo di proteina beta-amiloide nel cervello, una proteina che è considerata causa delle demenze e dell’Alzheimer (che a oggi non hanno cure). Secondo lo studio appena pubblicato i pazienti trattati avrebbero mostrato segni di rallentamento del declino cognitivo.
La sperimentazione
Il farmaco in questione si chiama aducanumab, ed è un anticorpo monoclonale (sviluppato dalla statunitense Biogen) che «insegna» al sistema immunitario a riconoscere le placche. Il medicinale è stato testato su un gruppo di 165 persone con Alzheimer moderato, metà delle quali ha ricevuto una infusione settimanale, mentre gli altri hanno avuto un placebo. Chi ha ricevuto il principio attivo ha mostrato una progressiva riduzione delle placche, spiegano gli autori, mentre per chi ha ricevuto il placebo la situazione è rimasta invariata. «Dopo un anno - sottolinea Roger Nitsch dell’università di Zurigo, che definisce i risultati `incoraggianti´ - le placche sono quasi completamente scomparse». Inoltre, chi ha ricevuto dosi più alte del farmaco ha anche avuto maggiore riduzione delle placche (misurate con la Pet). Risultati positivi si sono avuti anche da uno studio presentato alla Conferenza Internazionale dell’Associazione Alzheimer lo scorso luglio a Toronto. In quel caso ad essere stato testato era un altro farmaco, chiamato Lmtx.
Studio incoraggiante, ma serve cautela
«Valuto questo studio molto importante e incoraggiante - commenta Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e direttore scientifico del Gruppo di ricerca Geriatria di Brescia- e ho l’impressione che, con le dovute cautele, ci stiamo avvicinando a una soluzione concreta per curare l’Alzheimer. È stato dimostrato che il farmaco riduce l’amiloide nel cervello, ma non sempre si sono visti gli effetti clinici. In questo caso sia nell’animale sia nell’uomo anticorpo monoclonale si lega alla betamiloide e ne produce una riduzione. La novità è che anche se in condizioni sperimentali e molto precarie si è vista oltre alla riduzione delle placche anche la riduzione dei sintomi. È decisamente passo in avanti».
Il futuro: una sfida per i sistemi sanitari
«Questi due studi, insieme ad altri in corso su altre molecole, confermano che il vento sta cambiando - conferma Paolo Maria Rossini, direttore della Neurologia del Policlinico Gemelli di Roma -, e questo grazie a un cambio di paradigma, si anticipa la fase di malattia in cui si provano questi farmaci e questo dà risultati». L’arrivo imminente di terapie in grado di bloccare l’avanzamento della malattia è una sfida per i sistemi sanitari, sottolinea l’esperto. «Questi farmaci hanno un costo altissimo, ed entro pochi anni saranno disponibili, con i pazienti che cominceranno a bussare alla porta del ministero della Salute - spiega -. Bisogna fare subito un piano per fare uno screening delle persone a rischio, come chi ha già dei casi in famiglia o chi ha avuto un forte trauma cranico da giovane, in modo da individuare, e ora è possibile farlo, quelli che svilupperanno la malattia. Il test va fatto in modo progressivo, iniziando con quelli meno invasivi e procedendo via via con quelli più costosi su chi risulta positivo ai primi. Così si possono individuare i soggetti a cui dare il farmaco, evitando di darlo a tutti, che sarebbe insostenibile dal punto di vista economico. Bisogna ricordare che un malato di Alzheimer costa decine di migliaia di euro l’anno, poter evitare dei casi, anche con costi alti, è comunque un guadagno».
Nuovo trial su 2700 persone
L’ultimo studio, quello pubblicato su Nature, di fase 1 non doveva verificare l’efficacia nel diminuire i sintomi, sottolineano gli autori, ma comunque una diminuzione del declino cognitivo, dipendente dalla dose ricevuta, è stata trovata in chi aveva preso il farmaco. Dal punto di vista della sicurezza, sottolineano gli autori, sono stati trovati problemi nei pazienti con una particolare variante genetica, che hanno avuto un accumulo di fluidi nel cervello che in qualche caso ha portato a forti emicranie e alla sospensione. Gli effetti collaterali non sono però stati giudicati gravi, tanto che dopo i risultati incoraggianti i la sperimentazione andrà avanti: è ora previsto un trial (fase III) su 2700 pazienti affetti da forme lievi o moderate di Alzheimer. Lo studio si dovrebbe concludere entro la fine del decennio e se tutto procederà senza imprevisti una nuova terapia potrebbe arrivare entro il 2020.
Scienziati prudenti
Anche se Nature ha presentato lo studio in toni trionfalistici la cautela è d’obbligo. Anche perché sono molti i farmaci sperimentati contro l’Alzheimer che si sono rilevati promettenti nelle prime fasi ma che in un secondo momento sono stati dei fallimenti. «Spero che i trial clinici di fase III (quelli in cui si verifica l’efficacia di una terapia su un numero ampio di persone, ndr) siano un successo, ma ho una sensazione di dèja vu», ha dichiarato Gordon Wilcock, professore all’università di Oxford. Prudente anche il neurologo Sandro Iannaccone, primario della neuroriabilitazione del San Raffaele di Milano dove è in corso una parte della sperimentazione del farmaco: «L’educanubab è efficace nel ridurre gli accumuli, ma al momento non è ancora chiaro se riduca anche i sintomi, cioé se sia in grado di contrastare la demenza e sia efficace a livello di memoria». Gli stessi autori, pur entusiasti, invitano alla cautela. La scomparsa delle placche non è ancora una prova di efficacia, sottolinea in un editoriale di accompagnamento Eric Reiman del Banner Alzheimer’s Institute. «Secondo alcuni ricercatori le placche sono un effetto, non una causa del declino - scrive -. Se il suo rallentamento verrà confermato da studi più ampi ci saranno indicazioni utili anche a risolvere questo dubbio».
Il farmaco
L’aducanumab è un anticorpo umano, isolato in persone sane che avevano mostrato una particolare resistenza al declino cognitivo, mentre i suoi livelli erano molto bassi negli anziani colpiti da Alzheimer. Per questo i ricercatori hanno intuito che l’anticorpo potesse avere un ruolo protettivo. Lo sviluppo dell’anticorpo come terapia e la sua successiva sperimentazione si basano su questo principio. Nel giro di poco si dovrebbe scoprire se è corretto.
Corriere.it