In Futuro potrebbe esistere un «Vaccino» contro il Diabete?
Primi risultati promettenti sull’uomo: iniettare specifiche proteine nei linfonodi
o per via intradermica salva le cellule del pancreas, riducendo la necessità
di insulina e mantenendo stabile la produzione residua di ormone.
Nei pazienti con diabete di tipo 1 il sistema immunitario “impazzisce” e attacca le cellule beta del pancreas che producono insulina, così pian piano l’ormone scarseggia fino a scomparire, impedendo un buon controllo del glucosio nel sangue. Non è molto diverso da quel che accade nelle allergie: anche in questi casi il sistema immunitario deraglia, reagendo contro proteine in realtà innocue. Il parallelismo ha aperto un filone di ricerca: da qualche anno diversi gruppi di ricercatori in tutto il mondo stanno studiando una possibile “immunoterapia” del diabete di tipo 1 e di recente su Science Translational Medicine è stato pubblicato uno studio dai risultati assai promettenti.
Il primo studio pilota pochi mesi fa
La ricerca arriva dopo uno studio pilota simile, pubblicato sul New England Journal of Medicine qualche tempo fa, che aveva coinvolto soltanto sei pazienti aprendo però la strada all’uso dell’immunoterapia per il diabete nell’uomo. L’approccio infatti è il risultato di anni di indagini in vitro e in vivo, sugli animali da esperimento, per testare un concetto analogo a quello dell’immunoterapia per le allergie: si somministra all’organismo la proteina contro cui c’è una risposta esagerata (estranea nel caso delle allergie, dell’organismo nel caso di una patologia autoimmune come il diabete di tipo 1), cercando di “insegnare” al sistema immunitario a tollerarla.
Nel caso del diabete, i ricercatori svedesi dell’Università di Linköping del primo studio pilota hanno scelto la proteina GAD65, la decarbossilasi dell’acido glutammico presente sulle cellule beta pancreatiche, contro cui si formano auto-anticorpi in caso di diabete di tipo 1. Johnny Ludvigsson e i suoi collaboratori hanno iniettato nei linfonodi inguinali di sei volontari con diabete di tipo 1 dai 20 ai 22 anni, che avevano ricevuto la diagnosi da non oltre sei mesi, una proteina analoga a GAD65 chiamata GAD-alum, a piccole dosi e in tre volte successive.
Ai partecipanti è stata data anche vitamina D per tutta la durata dello studio, per ridurre la risposta infiammatoria del sistema immunitario. A sei mesi di distanza la terapia ha ridotto i livelli di emoglobina glicata (indicativa dell’andamento della glicemia nell’arco degli ultimi due-tre mesi) e la necessità di iniezioni di insulina, suggerendo perciò il mantenimento di una certa quota di produzione di insulina naturale; quattro casi sono stati seguiti fino a quindici mesi e anche in questi soggetti i buoni risultati si sono mantenuti a distanza di tempo.
Il trial, chiamato DIAGNODE, non ha previsto però un gruppo di controllo non trattato con cui confrontare i risultati: un neo superato dalla ricerca appena uscita, condotta su 27 volontari con diabete messi a confronto con pazienti-controllo non sottoposti a immunoterapia.
La nuova sperimentazione
In questo caso Mark Peakman, coordinatore della ricerca, ha utilizzato una proteina diversa, il MonoPepT1De: il concetto resta lo stesso, cambia solo il mezzo con cui si cerca di insegnare al sistema immunitario a “tollerare” le cellule beta del pancreas senza distruggerle. «Quando a un paziente viene diagnosticato il diabete di tipo 1 in genere nel pancreas è ancora presente il 15-20 per cento di beta cellule. Il nostro scopo è cercare di proteggerle, insegnando al sistema immunitario a non attaccarle», dice Peakman.
I risultati della sperimentazione, condotta iniettando la piccola proteina sotto cute ogni due o quattro settimane per sei mesi, gli danno ragione: i pazienti non trattati nel tempo hanno dovuto aumentare le dosi di insulina, i soggetti sottoposti a immunoterapia sono rimasti su dosaggi stabili e hanno avuto bisogno di meno insulina per controllare la glicemia, indice di una maggior capacità di lavoro residua del pancreas. Risultati che fanno sperare, come osserva Peakman: «C’è ancora molta strada da fare, ma questi dati suggeriscono che stiamo andando nella giusta direzione. La tecnologia di realizzazione delle piccole proteine utilizzate non soltanto è sicura per i pazienti, ma soprattutto comporta un effetto consistente sul sistema immunitario: la speranza è che un giorno le cellule che producono insulina possano essere preservate, riducendo la necessità di iniezioni dell’ormone nei pazienti con diabete di tipo 1 e magari evitandole del tutto, se riusciremo a intervenire sui soggetti a rischio».
A oggi è presto per dirlo, servono ulteriori test su numeri più ampi di pazienti da seguire più a lungo nel tempo; i dati raccolti in Svezia e Regno Unito sono tuttavia incoraggianti e, come osserva Ludvigsson, «la modalità di progressione della malattia è diversa nei vari pazienti, perciò non è detto che questo approccio possa essere eccellente per tutti; tuttavia, se anche riuscissimo a bloccare la patologia in metà dei casi si tratterebbe di un enorme successo».
By Eureka! Fonte >>> il Corriere <<<