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Alzheimer, epotilone D potenzialmente efficace per rallentare la progressione della patologia.
Si tratta di un farmaco sperimentato per il trattamento dei tumori
Grazie alla Scuola Perelman di Medicina dell'Università della Pennsylvania una nuova scoperta sull'Alzheimer: l'epotilone D (epoD) rallenta la progressione della malattia. La ricerca è stata condotta dal team di Bin Zhang utilizzando il modello murino, grazie al quale è stato riscontrato che il farmaco, antitumorale approvato dall'FDA, può aumentare la stabilità dei microtubuli cerebrali, migliorando la funzione delle cellule nervose.
Lo studio, pubblicato sul Journal of Neuroscience, suggerisce che il farmaco sia in grado di rallentare i danni neurologici e di migliorare le funzioni cerebrali in pazienti con la Malattia di Alzheimer.
Le cellule nervose delle persone con malattia di Alzheimer contengono dei 'grovigli’, cioè macchie costituite dalla proteina tau. In questo studio, il gruppo di scienziati ha esaminato gli effetti dell'EpoD su topi anziani che avevano deficit di memoria e cellule nervose simili ai malati di Alzheimer.
I ricercatori, hanno somministrato settimanalmente il composto a questi topi per tre mesi. Rispetto ai topi con sintomi di Alzheimer che non avevano ricevuto il trattamento, nei topi trattati si era ridotta la formazione di grovigli tau nel cervello. I roditori trattati hanno anche superato gli animali che non hanno ricevuto il farmaco nei test di apprendimento e memoria.
“Questi risultati - dicono gli esperti - suggeriscono che EpoD potrebbe assicurare un beneficio terapeutico nell'Alzheimer e nelle altre malattie neurodegenerative, come la degenerazione dei lobi frontotemporali, dove sono presenti anormali grovigli della proteina tau” .
Alzheimer, troppo sale nel piatto fa male al cervello
Basta diminuire il sodio consumato per ridurre il rischio anche di malattie cardiovascolari
Che gli eccessi nell’alimentazione facciano poco bene alla salute è cosa nota e questo vale anche per l’utilizzo del sale. Dopo la notizia, proveniente del CNR di Pisa, che una riduzione moderata di calorie aiuta a mantenere la plasticità del cervello ecco un nuovo studio che rimarca il ruolo dell’alimentazione nell’insorgenza dell’Alzheimer. Stando a quanto riportato su uno studio appena pubblicato sul Journal Neurobiology of Aging, infatti, gli anziani che hanno l'abitudine di condire con molto sale ogni piatto possono ritrovarsi, in futuro, con problemi al cervello e al cuore. Questi sarebbero vittime di un declino mentale più rapido rispetto ai coetanei che hanno diminuito le dosi durante i pasti.
La ricerca è stata fatta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto (Canada) ed ha evidenziato come basti superare un cucchiaino di sale al giorno per avere effetti negativi sul cervello e aumentare il rischio di Alzheimer. Secondo gli autori, un livello alto è stabilito in poco più di 3.090 mg di sodio puro al giorno: è l’equivalente di un cucchiaino da tè colmo di sale (ovvero 7,7 grammi di cloruro di sodio), o tradotto in quello che mangiamo 15 sacchetti di patatine, tre 'Big Mac' e mezzo, quasi due colazioni all'inglese. “
I risultati del nostro studio - afferma Alexandra Fiocco, autore della ricerca - hanno dimostrato che una dieta ricca di sodio, combinato con scarso esercizio fisico, è un cocktail particolarmente dannoso per le prestazioni cognitive degli anziani. La buona notizia è che gli anziani sedentari non hanno mostrato un declino cognitivo nel corso dei tre anni di osservazione quando hanno ridotto l'apporto di sodio”.
Il team canadese ha monitorato, per un periodo di tre anni, il consumo di sale e i livelli di attività fisica di 1.262 uomini e donne di età compresa tra 67 e 84 anni, tutti in buone condizioni di salute. I ricercatori hanno valutato, allo stesso tempo, le risposte cognitive dei partecipanti all'inizio dello studio e una volta all'anno per tutta la durata della ricerca. Li hanno inoltre sottoposti a test per diagnosticare eventuali spie di Alzheimer. La ricerca ha quindi dimostrato che, se le persone riducono il sale nella loro dieta di circa 3 grammi al giorno, l'equivalente di sei fette di pane, possono abbassare del 25 per cento la probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari. Secondo lo studio, i bambini di età compresa tra 1 e 3 anni dovrebbero assumere con la dieta non più di 2 grammi al giorno di sale, per arrivare a 3 g al giorno tra 4 e 6 anni e a 5 grammi tra i 7 e i 10 anni.
Nel Regno Unito - ricorda il quotidiano britannico 'Daily Mail' - la Food Standards Agency raccomanda che gli adulti non dovrebbero mangiare più di 6 grammi di sale nelle 24 ore, ovvero la quantità contenuta in un cucchiaino. Ma l'assunzione di un cittadino britannico è in media ben oltre il limite: si arriva a 8,6 grammi.
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Alzheimer, trovato possibile biomarcatore per rilevare malattia 20 anni prima dell’esordio.
Lo studio americano del prof. Bateman si è concentrato su una forma molto rara della malattia
Esiste una forma di Alzheimer ereditaria molto rara che colpisce generalmente in età precoce rispetto alla media. Si tratta di una forma di malattia nasce da una mutazione genetica che garantisce che una persona svilupperà la malattia, anche se solo un genitore la trasmette. Nella stragrande maggioranza dei casi di Alzheimer, tuttavia, la malattia insorge attraverso una complessa interazione di fattori genetici e ambientali che rimane ancora poco chiara. Su questi pazienti si è concentrato lo studio del prof. Randall Bateman, docente della Washington University School of Medicine al fine di trovare dei biomarcatori in grado di rilevare con anticipo l’esordio della malattia. I risultati dello studio, appena presentati alla Alzheimer Association International Conference di Parigi sembrano promettenti. Sembrerebbe infatti che misurando alcuni specifici cambiamenti chimici nel cervello si possano cogliere i segnali della malattia addirittura 20 anni prima della comparsa dei primi sintomi di questa malattia neurodegenerativa.
Per ora i risultati dello studio possono essere applicati solo ad una piccola frazione – meno dell’1 per cento – dei malati di Alzheimer, quelli appunto affetti dalla variante rara. Tuttavia la scoperta potrebbe avere una portata più ampia poiché la capacità di identificare i primi segnali di pericolo chimico nel cervello ha in sé la prospettiva di un trattamento preventivo, non solo per questi pazienti, ma forse anche per quelli colpiti da forme più comuni della malattia, questo almeno è quanto si augurano i ricercatori.
“Vogliamo evitare danni e perdita di cellule cerebrali – hanno spiegato durante il convegno di Parigi - intervenendo precocemente nel processo della malattia, anche prima che i sintomi esteriori siano evidenti, perché a quel punto potrebbe essere troppo tardi”.
Bateman e colleghi hanno analizzato i dati di una serie di test effettuati sui portatori della mutazione rara. Gli stessi test – valutazioni cognitive, la tomografia ad emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica (MRI), e la ricerca di marcatori rivelatori nel liquido cerebro-spinale e nel sangue – sono anche stati fatti sui fratelli che non hanno mostrato la variante genetica in questione. I partecipanti destinati a sviluppare l’Alzheimer non avevano ancora mostrato sintomi vista la giovane età, verso la fine dei 30 anni, ma alcuni hanno mostrato i primi segni della malattia già intorno ai 45 anni. Poiché la malattia è così rara, i dati dovevano essere raccolti da una rete internazionale di 11 centri di ricerca negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, ed hanno riguardato 150 volontari in un programma che, alla fine, ne ha compresi oltre 250. Lo studio ha esaminato, in particolare, i cambiamenti nella firma chimica del cervello legata a due tipi di proteine comuni a tutte le forme di Alzheimer. Uno è un livello ridotto nel fluido spinale di una proteina chiamata amiloide-beta42. Al contrario, questo indica un pericoloso accumulo della proteina stessa in alcune aree del cervello che distrugge i neuroni e alla fine porta a danni cerebrali irreversibili.
Il marcatore è stato un altro aumento di tau, la componente principale dei neuro-grovigli di fibre che contribuiscono anche alla morte cellulare. Come sospettato, i soggetti sotto i 40 anni con la mutazione genetica hanno mostrato entrambe le caratteristiche, mentre i loro fratelli senza mutazione no.
“Questo – ha detto Bateman - suggerisce che possiamo misurare anomalie chimiche del cervello nei portatori del gene del morbo di Alzheimer che iniziano almeno 10 anni, forse anche 20 anni, prima dell’età in cui i loro genitori hanno mostrato i primi sintomi dell’Alzheimer. Crediamo di poter imparare molto di più sulla stragrande maggioranza delle persone in cui il morbo di Alzheimer si sviluppa come risultato di complesse interazioni tra i loro geni, esperienze di vita e altri fattori. La diagnosi precoce e la cura sono fondamentali se si vuole arginare la crescente epidemia”.
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Distrofia muscolare di Duchenne
news su farmaci, terapie, sperimentazioni e qualità della vita.
La distrofia muscolare di Duchenne o DMD è una patologia neuromuscolare a trasmissione recessiva legata al cromosoma X, ed è caratterizzata da una degenerazione progressiva dei muscoli scheletrici, lisci e cardiaci, che genera debolezza muscolare diffusa. Colpisce prevalentemente i maschi mentre le femmine sono di solito asintomatiche (dette portatrici sane). Si manifesta nella prima infanzia con problemi nella deambulazione che progrediscono fino alla perdita dell’autonomia. È la più grave tra le distrofie muscolari: conduce alla completa immobilità e l’aspettativa di vita, pur raddoppiata negli ultimi anni, non supera il terzo decennio. La DMD colpisce infatti in modo specifico il tessuto muscolare scheletrico, compresi i muscoli respiratori e il cuore, ed è caratterizzata da una progressiva distruzione del tessuto muscolare che viene progressivamente sostituito da tessuto fibrotico e adiposo. Attualmente, ancora non esiste una cura, ma la presa in carico, dalla dalla diagnosi alle Raccomandazioni Cliniche di trattamento, permette di raddoppiare l'aspettativa di vita.
I primi sintomi della patologia si manifestano intorno ai tre anni: il bambino ha difficoltà nel correre, salire le scale, saltare, e mostra il cosiddetto “segno di Gowers”, un modo particolare di utilizzare le mani poggiate sulle cosce per alzarsi da terra o dalla posizione seduta. Con il progredire dell’età, le difficoltà motorie diventano evidenti e al momento dell’ingresso nella scuola elementare il quadro clinico è chiaro: l’andatura è oramai anomala e con frequenti cadute, la camminata avviene spesso in punta di piedi. La capacità di camminare viene mantenuta solitamente fino ai 10-14 anni, dopo di che si ha il passaggio alla sedia a rotelle che diverrà l’unico mezzo per la deambulazione. Da questo momento il bambino comincia a fare un uso intensivo dei muscoli degli arti superiori con una conseguente accelerazione della degenerazione di queste fasce muscolari. I ragazzi perdono cosi l’uso delle braccia prima dei venti anni. La Duchenne colpisce tutti i muscoli scheletrici, i muscoli respiratori (diaframma e muscoli intercostali) e il cuore che con il tempo si indeboliscono. Fin da piccoli, i pazienti Duchenne devono effettuare periodici monitoraggi; con l’avanzare dell’adolescenza la funzionalità respiratoria e quella cardiaca vengono compromesse e diventa necessario ricorrere ad apparecchi di ventilazione assistita e a farmaci per il trattamento degli scompensi cardiaci.
Fino a qualche anno fa era molto frequente che la morte sopraggiungesse entro i venti anni di età. Ad oggi non esiste ancora una cura risolutiva per la distrofia di Duchenne, ma la messa a punto di un approccio multidisciplinare, che comprende la farmacologia, la fisioterapia, la chirurgia ortopedica, la prevenzione cardiologia e l’assistenza respiratoria, ha permesso di limitare gli effetti della malattia e di migliorare le condizioni di vita. In un decennio, le aspettative di vita sono raddoppiate.
in Italia colpiti oltre 2.000 giovani.
le nuove iniziative per la promozione di una diagnosi precoce delle malattie neuromuscolari. Dopo anni in cui il numero di nuovi casi cresceva del 10% l’anno, nel nostro Paese le malattie neuromuscolari manifestano attualmente un’incidenza stabile. Nonostante ciò, il numero complessivo delle persone interessate da queste gravi patologie, che tipicamente esordiscono in età infantile, è in aumento: questo accade perché le terapie di supporto oggi disponibili stanno aumentando l’aspettativa di vita di chi ne è affetto. Nella distrofia muscolare di Duchenne, ad esempio, che nel nostro Paese colpisce circa 2.000 persone, la sopravvivenza è quasi raddoppiata negli ultimi anni.
“Il nostro obiettivo è quello di cercare di anticipare l’età della diagnosi”, afferma il dott. Mattia Doria, Segretario Nazionale alle Attività Scientifiche ed Etiche della FIMP. “Le evidenze scientifiche e le esperienze dei malati e delle loro famiglie, infatti, ci testimoniano che la qualità e l’aspettativa di vita aumenta sensibilmente in funzione della precocità di inizio dei trattamenti. Fondamentale, quindi, risulta il ruolo del pediatra di famiglia, lo specialista che segue nel tempo lo sviluppo del bambino fin dalla nascita e che per primo può individuare i possibili segnali di sospetto, sensibilizzare i genitori a segnalarli e inviare ai servizi deputati alla diagnosi e all’avvio del trattamento”.
Per questo motivo, la FIMP promuove da oltre un anno il progetto PETER PaN (PEdiatria TEerritoriale e Riconoscimento Precoce Malattie Neuromuscolari) realizzato con il supporto non condizionante di PTC Therapeutics in collaborazione con l’associazione Parent Project APS. I primi risultati dell’iniziativa sono presentati oggi in un convegno nazionale al Ministero della Salute. “Sono malattie rare che compaiono nei primissimi mesi o anni di vita”, prosegue il dott. Doria. “Devono essere identificate precocemente attraverso il riconoscimento di sintomi specifici. Una diagnosi precoce gioca un ruolo chiave nel garantire l’inizio tempestivo dei trattamenti, che sono in grado di rallentare la progressione della malattia. Nella distrofia di Duchenne non esistono cure definitive e fino a poco tempo fa l’aspettativa di vita era intorno ai 20 anni. Adesso arriva frequentemente ai 30 e, non di rado, possiamo incontrare pazienti 40enni”.
Nell’ambito del progetto PETER PaN è stato attivato un portale informativo e uno spot video di sensibilizzazione per i genitori e caregivers. “Esistono dei campanelli d’allarme che devono essere tempestivamente segnalati”, prosegue il dott. Carmelo Rachele, pediatra di famiglia FIMP che sta collaborando alla realizzazione del progetto. “Se, ad esempio, un bambino nei primi mesi di vita non è in grado di sollevare la testa in posizione prona, oppure tra 6 e i 9 mesi non è in grado di rotolare o mantenere la posizione seduta o, ancora, se entro i 12-15 mesi non riesce a sollevarsi da terra sorreggendosi ad un sostegno, significa che potrebbe avere un disturbo del neurosviluppo riferito all’area neuromotoria”.
“Come pediatri di famiglia - riprende il dott. Doria - abbiamo il compito di valutare le competenze neuromotorie infantili all’interno delle varie attività previste dai bilanci di salute, con particolare riferimento ai primi 48 mesi di vita. Sono visite speciali che consentono di mettere in atto con tempestività percorsi diagnostico-terapeutici adeguati, eventuali esami preventivi o interventi di profilassi: è importante che le famiglie vi ricorrano con regolarità. Tali appuntamenti, inoltre, rappresentano un fondamentale momento di educazione ai corretti stili di vita dell’intera famiglia e di tutta la popolazione”.
“La nostra Federazione - aggiunge il dott. Paolo Biasci, Presidente Nazionale della FIMP - vuole quindi, con questo progetto, ribadire l’assoluta importanza di sottoporre con continuità un bimbo ai bilanci di salute. Il numero delle visite e la loro calendarizzazione variano leggermente nelle diverse Regioni, ma nel loro insieme sono uniformemente diffuse e gratuite su tutto il territorio nazionale”.
Le malattie neuromuscolari colpiscono in totale oltre 20.000 bambini e adolescenti nel nostro Paese. “Sono tutte causate da un danno genetico che può essere ereditato dai genitori o di nuova insorgenza”, sottolinea il dott. Rachele. “Si tratta di patologie che determinano una progressiva debolezza muscolare che limita fortemente le capacità di movimento e può portare a deformazione dello scheletro e difficoltà respiratorie. Si calcola che quattro pazienti su dieci abbiano bisogno di programmi di riabilitazione intensiva ed estensiva. L’introduzione, negli ultimi anni, di cure specifiche e di nuovi strumenti tecnologici, ha permesso di garantire una buona qualità di vita, soprattutto se queste cure vengono intraprese precocemente, grazie anche alla collaborazione e cooperazione tra il sistema di cure primarie del territorio e i centri di riferimento di terzo livello specializzati nella cura delle malattie rare”.
“Fondamentale è quindi - conclude il dott. Doria - un aggiornamento complessivo delle conoscenze e competenze del pediatra di famiglia sul riconoscimento precoce e sul sostegno complessivo a pazienti che presentano esigenze particolari. Ad oggi, la Federazione sta programmando corsi di formazione su queste tematiche su tutta la Penisola”.
“Ringraziamo la FIMP per la promozione di PETER PaN”, conclude Filippo Buccella, fondatore dell’associazione di pazienti Parent Project. “È un progetto nazionale importante, di grande valore scientifico, che vuole accendere i riflettori su delle malattie difficili da affrontare anche per noi caregiver. È terribile la devastazione e il dolore che colpiscono una famiglia alla scoperta di queste malattie: in questi momenti i pediatri sono l’unico supporto per i genitori ed i piccoli pazienti. L’alleanza si stabilisce proprio in quei minuti che possono cambiare per sempre la storia di una famiglia. Il progetto della FIMP è l’idea felice che, come nella storia famosa, può far volare felici i nostri bambini”.
Tutta colpa di un gene. Diagnosi, terapie e prospettive future.
La distrofia muscolare di Duchenne e Becker (DMD e BMD) è una malattia rara, ovvero rientra in quelle patologie genetiche con una prevalenza che non supera lo 0,05 per cento della popolazione (ossia 5 casi su 10.000 persone), e che sono per la maggior parte incurabili. La DMD riguarda prevalentemente i maschi, con un’incidenza di circa un paziente maschio su 5000 nati vivi, ed è solitamente asintomatica nelle femmine (con qualche rara eccezione), che vengono definite “portatrici sane”. In Italia non esistono dati ufficiali sul numero delle persone affette dalla distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Fino a qualche anno fa si stimava che nel nostro paese ci fossero circa 5.000 malati, ad oggi la stima è notevolmente diminuita e si fa riferimento a circa 1500 malati, con una netta maggioranza di pazienti Duchenne rispetto ai pazienti Becker. La stima mondiale di pazienti affetti da DMD e BMD è molto approssimativa, ma una serie di dati aggiornati indica che, a livello globale, vi siano circa 300.000 persone malate.
Tutta colpa di un gene
La distrofia di Duchenne fu descritta per la prima volta nel 1868 dal neurologo francese Guillaume Duchenne de Boulogne, e le sue basi genetiche sono state identificate nel 1986 riconducendole a mutazioni nel gene della distrofina. Questo gene, il più grande conosciuto nel nostro DNA, è collocato sul cromosoma X e questo spiega la trasmissione legata al sesso. La distrofia di Duchenne è una malattia che nei maschi (che possiedono un cromosoma X ed uno Y) si manifesta pienamente, mentre nelle femmine (che possiedono 2 cromosomi X) la sintomatologia è molto ridotta per via di una compensazione con la presenza di una forma normale del gene sul secondo cromosoma X. Le donne vengono definite come “portatrici sane”, ovvero non sviluppano la patologia, anche se esistono rari casi in cui le donne con la mutazione hanno una riduzione della forza muscolare generica e vanno incontro a problemi cardiaci in età adulta.
Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker (BMD) rientrano nella categoria delle distrofinopatie, ovvero quelle malattie muscolari causate da un difetto della distrofina. Questa proteina si trova ancorata sulla faccia interna della membrana delle fibre muscolari, tramite un complesso di molte altre proteine, e funge da collegamento strutturale tra la membrana e i filamenti contrattili delle fibre. La distrofina ha un ruolo determinante per la stabilità meccanica della membrana durante la contrazione muscolare. L’assenza, o il malfunzionamento, della distrofina va ad intaccare l’integrità della membrana: si creano dei “buchi” che rendono la struttura instabile e permeabile a sostanze che normalmente non possono entrare nella cellula muscolare. A livello cellulare, si crea un flusso anomalo costituito da sostanze fondamentali per la funzionalità del muscolo che escono e sostanze dannose, come il calcio, che entrano.
Questa situazione porta velocemente ad un’esplosione e morte delle cellule muscolari, un processo che oltre alla distruzione delle fibre muscolari causa una fuoriuscita del contenuto cellulare che viene riconosciuto e attaccato come corpo estraneo dal sistema immunitario. L’attacco effettuato dalle “cellule sentinella” è molto efficiente, sin troppo, provvede infatti alla "ripulitura" di una zona del muscolo che risulta essere più larga del necessario. Il sistema immunitario provoca così un danno ancor più grave di quello iniziale. Gli spazi vuoti che si vengono a creare sono poi riempiti da tessuto connettivo a formare una sorta di cicatrice che impedisce a sua volta la funzionalità muscolare. Nei pazienti colpiti da DMD e BMD, questo tipo di processo di danneggiamento muscolare che si autoalimenta si ripete in maniera costante finché non si arriva alla morte della totalità delle cellule muscolari.
Ciò che differenzia la distrofia muscolare di Duchenne da quella di Becker è la quantità di distrofina funzionale prodotta nelle cellule muscolari: un’assenza completa della proteina determina la forma di Duchenne, mentre un’alterazione quantitativa o qualitativa di minore entità conduce alla distrofia di Becker. La BMD è una forma più lieve caratterizzata da un esordio tardivo e da un decorso meno definito. Un’ulteriore differenza tra la DMD e la BMD si riscontra nell’incidenza, la BMD ha un’incidenza nettamente minore, inferiore a 1 caso su 18.000, circa quattro volte meno della DMD.
Ereditarietà
Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker sono malattie genetiche, ma non sempre con origine ereditaria. Se in una famiglia si sono già verificati casi di DMD o BMD, grazie alla consulenza genetica è possibile conoscere con precisione il rischio di trasmettere ai propri figli queste patologie. Ad esempio nel caso più comune, con un padre sano ed una madre portatrice, la probabilità di avere un figlio ammalato è del 25%. Se si tratta di un maschio ci saranno infatti il 50% di possibilità che risulti ammalato, mentre se si tratta di una femmina il 50% di possibilità che risulti portatrice sana. Tuttavia, circa un terzo dei casi DMD/BMD nasce da madri che non sono portatrici. In questo caso, la malattia è dovuta a una nuova mutazione del gene per la distrofina, un errore accidentale che non è trasmesso dai genitori.
Nel caso in cui la DMD/BMD sia presente in famiglia è importante ricorrere ad una consulenza genetica e alla diagnosi prenatale. Questa è possibile a partire dalla decima settimana di gravidanza mediante villocentesi o successivamente con amniocentesi.
La diagnosi
Non si sa con certezza quando inizia clinicamente la malattia. Durante i primi anni di vita, l'iter diagnostico è spesso avviato in seguito a un riscontro, da parte dei genitori o del pediatra, di alcuni sintomi che si presentano come campanello di allarme. Altre volte invece l’avvio dell’iter diagnostico è scaturito dal casuale riscontro, a seguito di un prelievo di sangue, di un incremento di creatinfosfochinasi (CPK) e di transaminasi (AST e ALT) nel sangue del bambino. Un incremento di CPK e transaminasi nel sangue è un dato indicativo per un danno muscolare e per una possibile malattia neuromuscolare ma non è assolutamente specifico. Infatti può anche essere l’indicatore di un semplice affaticamento muscolare o di altre patologie quali epatiti, malattie infettive, malfunzionamento della tiroide e altro ancora.
La diagnosi di DMD/BMD può essere accertata solo da biopsia muscolare e da diagnosi molecolare.
La biopsia muscolare è un’analisi invasiva che viene effettuata prelevando un pezzettino di tessuto muscolare dal paziente, solitamente dal quadricipite, e serve ad osservare l’eventuale presenza di fibre muscolari degenerate e quantificare la distrofina presente nel muscolo. Da quest’analisi è già possibile definire se si tratta di DMD (la forma più grave) o BMD (la forma più lieve).
La diagnosi molecolare è invece un’analisi non invasiva ed è condotta con un semplice prelievo di sangue. Quest’ultima permette di stabilire con esattezza le eventuali mutazioni a carico del gene per la distrofina. Fino a qualche anno era difficile riuscire ad avere una diagnosi molecolare accurata e ciò richiedeva spesso tempi molto lunghi. Per fortuna negli ultimi anni sono state sviluppate metodologie sempre più accurate per la diagnosi molecolare, che sono di largo impiego anche in Italia, e ora si ricorre sempre più spesso direttamente all’analisi molecolare evitando l’invasività di una biopsia muscolare.
I dati acquisiti nel mondo sulle diagnosi molecolari hanno rivelato la frequenza delle principali mutazioni che causano la distrofia di Duchenne. In circa il 65% dei casi, la DMD è causata da ampie delezioni del gene della distrofina (ovvero perdita di parti intere del gene), nel 10% da duplicazioni (ripetizioni di parti del gene), nel 24% da piccole mutazioni puntiformi, basate sulla sostituzione di alcune lettere del codice genetico con altre, e nell'1% da mutazioni atipiche.
Alla ricerca di una cura
Per curare la DMD si deve in qualche modo bloccare o almeno diminuire la degenerazione muscolare in corso. Al momento l’unica terapia universalmente utilizzata si basa sui farmaci corticosteroidi (cortisone) che agiscono prevalentemente intervenendo sui processi antiinfiammatori e riducendo le reazioni immunitarie coinvolte nella progressione della malattia. L’esperienza suggerisce che si riesce a vedere un buon miglioramento della performance fisica del paziente se il trattamento farmacologico viene iniziato al momento, o prima, che il bambino raggiunga il plateau delle sue capacità fisiche, una condizione che si raggiunge tipicamente verso i 4-6 anni. Nonostante l’aiuto fornito dai corticosteroidi, questi non rappresentano una terapia in grado di risolvere la malattia piuttosto un trattamento palliativo che rallenta, in maniera provvisoria, la degenerazione muscolare. Inoltre, i pazienti che prendono corticosteroidi devono fare i conti con tutta una serie di gravi effetti collaterali quali cambiamenti comportamentali, riduzione della crescita, aumento eccessivo di peso, osteoporosi, intolleranza al glucosio, cataratta, ecc.
Una cura vera e propria, quella che arresta la malattia in tutti i pazienti Duchenne e Becker, deve ancora arrivare. Attualmente è in atto una collaborazione a livello mondiale, tra ricercatori, clinici, aziende farmaceutiche, biotech e pazienti, per attaccare la patologia su diversi fronti, ovvero sviluppando approcci terapeutici diversi con bersagli diversi che vadano tutti a confluire sullo stesso obiettivo: il muscolo scheletrico, la sua forza e la rigenerazione cellulare. Nell’ultimo decennio c’è stata una crescita esponenziale della ricerca traslazionale nel campo della DMD e BMD: sono oltre cinquanta i progetti di ricerca focalizzati su nuove terapie sperimentali che, nel mondo, sono passati dagli studi preclinici a quelli clinici, e circa un terzo dei trial clinici sono in corso anche in Italia. Alcuni studi si trovano nelle prime fasi di sperimentazione, altri nelle fasi finali e più promettenti, e altri ancora addirittura in fase di post-autorizzazione all’immissione in commercio. Vi sono strategie più innovative o “personalizzate” che mirano a fornire ai pazienti la distrofina o a correggere le mutazioni genetiche (come la terapia genica, la terapia cellulare, l’editing genomico, l’exon skipping o piccole molecole che permettono di mascherare le mutazioni), ma anche strategie più universali basate su farmaci più “classici”, che puntano a combattere la debolezza muscolare, l’infiammazione, la fibrosi e la degenerazione del tessuto muscolare, compresi i muscoli respiratori e il cuore, che caratterizzano la DMD e la BMD.
Terapia genica
Questo approccio mira ad agire direttamente sul danno genetico e, più in particolare, a ripristinare la produzione della distrofina veicolando il gene sano direttamente all’interno del tessuto muscolare. Purtroppo, le grandi dimensioni del gene della distrofina, che è il più grande che abbiamo nel nostro DNA, hanno reso l’impresa molto ardua poiché i virus utilizzati in terapia genica per trasferire i geni nelle cellule hanno una capienza piuttosto limitata. Grazie ad una serie di progressi scientifici e tecnologici acquisisti in questi ultimi anni, diversi gruppi di ricerca sono riusciti a mettere a punto una strategia di terapia genica in vivo basata sull’utilizzo di forme di dimensioni ridotte, ma funzionali, del gene della distrofina. Queste possono essere ospitate all’interno di vettori virali di tipo adeno-associati (AAV) ed essere veicolate direttamente all’interno del tessuto muscolare.
Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 sono stati avviati negli Stati Uniti tre diversi studi clinici, con tre diversi costrutti della forma accorciata della distrofina (le cosiddette mini-distrofina e micro-distrofina), per valutare questa strategia in bambini e ragazzi affetti da DMD.
Terapia cellulare
Come nel caso della terapia genica, il presupposto di partenza è di ripristinare la produzione della distrofina. In questo caso, però, fornendo all’organismo cellule staminali in grado di colonizzare il tessuto muscolare con cellule muscolari sane che hanno la capacità di produrre la distrofina mancante. Nel 2011 è stato avviato, in Italia, lo studio clinico diretto da Giulio Cossu: il primo tentativo al mondo di trapianto eterologo di cellule staminali su pazienti DMD (le staminali vengono prelevate da un donatore sano immunocompatibile e infuse nel paziente). La ricerca è basata sull’utilizzo dei mesoangioblasti, particolari cellule staminali normalmente associate ai vasi sanguigni che sono capaci di rigenerare il tessuto muscolare danneggiato e ripristinare la sua funzionalità. Lo studio clinico, di Fase I/II, è stato condotto su 5 bambini Duchenne e, sebbene siano stati buoni i risultati sulla sicurezza, non è stata dimostrata l’efficacia del trattamento. Lo sviluppo clinico di questa specifica strategia è stato interrotto ma, in questi ultimi anni, i ricercatori stanno lavorando assiduamente per mettere a punto nuovi strumenti e protocolli per poter riavviare questo filone di sperimentazione.
Editing genomico
Il sistema CRISPR è un’innovativa tecnica di ingegneria genetica che permette di effettuare correzioni e modifiche direttamente sul DNA in maniera estremamente precisa, versatile, rapida e definitiva. I primi studi di editing genomico con CRISPR per la Duchenne risalgono al 2014. I diversi studi preclinici effettuati fino ad oggi sono stati condotti su modelli animali di distrofia muscolare o su cellule prelevate da pazienti DMD, e sono stati effettuati rimuovendo alcune mutazioni presenti nel gene della distrofina mediante l’eliminazione di uno o più esoni (porzioni codificanti di un gene). I risultati ottenuti sono assolutamente positivi e molto incoraggianti. Va però sottolineato che si tratta di studi preclinici, e che vi sono ancora una serie di aspetti tecnici da mettere a punto e di sfide da affrontare prima che si possa approdare alla sperimentazione clinica nei pazienti Duchenne.
Exon skipping
Quando una mutazione cambia lo schema di lettura del gene della distrofina non vi è più la produzione di una proteina funzionale, e ciò causa l’insorgenza della DMD. La strategia dell’exon skipping, tradotta letteralmente come “salto dell’esone”, utilizza piccole molecole antisenso per ristabilire il corretto schema di lettura eliminando un esone corrispondente alla regione in cui è presente la mutazione. Alla fine di questa “operazione molecolare”, la distrofina prodotta sarà più corta del normale ma pur sempre dotata della sua funzione muscolare. Il primo studio clinico sull’exon skipping è stato avviato nel 2006 e, attualmente, sono diverse le molecole in sviluppo clinico nel mondo.
Nel 2016, la FDA ha approvato, negli Stati Uniti, il trattamento con eteplirsen nei pazienti Duchenne che hanno mutazioni nel gene della distrofina trattabili con il salto dell’esone 51, mutazioni che colpiscono circa il 13% della popolazione DMD. Questa molecola non è stata ancora approvata dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA). È importante sottolineare che la terapia basata sull’exon skipping non può essere considerata una cura vera e propria ma, piuttosto, un modo per ridurre la gravità della distrofia.
Terapia per le mutazioni nonsenso
Attualmente, l’unica molecola ad aver ricevuto l’approvazione in Europa è ataluren, una piccola molecola per uso orale che interviene sui meccanismi molecolari coinvolti nella lettura dei geni e nella loro traduzione in proteine. Agisce esclusivamente sulle mutazioni “nonsenso”, che causano l’interruzione anticipata della lettura del gene e, quindi, la mancata produzione di distrofina funzionale. Le mutazioni “nonsenso” si trovano nel 10% della popolazione DMD. Il primo studio clinico con ataluren è stato avviato nel 2008 e nel 2014 la Commissione Europea (CE) ha concesso l’approvazione condizionale della molecola per il trattamento di bambini e ragazzi Duchenne dai 5 anni in su, deambulanti e con mutazione nonsenso. A seguire, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha dato il parere favorevole alla richiesta di inserire ataluren nell'elenco dei farmaci erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi della Legge 648/96, consentendo ai pazienti Duchenne italiani, rispondenti ai criteri sopra indicati, di avere accesso al farmaco. Infine, ad agosto 2018, sulla base dei risultati di ulteriori studi clinici la, CE ha esteso l'impiego di ataluren per il trattamento di pazienti dai 2 anni in su. Negli Stati Uniti, la FDA non ha ancora approvato la molecola.
Terapia farmacologica
Questo filone di ricerca raggruppa tutta una serie di approcci diversi che hanno come obiettivo finale lo sviluppo di nuove molecole che possano contrastare i processi infiammatori, fibrotici e degenerativi tipici della Duchenne. Questi nuovi farmaci sono ideati per sostituire, o limitare, l’impiego dei corticosteroidi (unica terapia, ad oggi, universalmente utilizzata per la Duchenne) la cui assunzione determina effetti collaterali spesso importanti. Le strategie terapeutiche farmacologiche includono molecole che agiscono per limitare la fragilità delle cellule muscolari, aumentare la massa muscolare, ottimizzare il metabolismo dei muscoli e contrastare il processo infiammatorio e fibrotico. Alcune di queste, inoltre, sono ideate per puntare direttamente alla funzionalità respiratoria e cardiaca.
In questo ambito, lo sviluppo di givinostat - un inibitore delle istone deacetilasi (HDAC) che permette al tessuto muscolare di rispondere al danno provocato dalla Duchenne con un meccanismo rigenerativo in grado di ridurre il processo d’infiammazione e di fibrosi della patologia – rappresenta un esempio di ricerca traslazionale “made in Italy”. Givinostat è una molecola ad uso orale sviluppata dall’azienda farmaceutica Italfarmaco e l’idea di puntare su un inibitore delle istone deacetilasi per la Duchenne nasce nei laboratori del ricercatore italiano Pier Lorenzo Puri. Attualmente, è in corso uno studio clinico internazionale di Fase III su pazienti DMD e, in Italia, uno studio clinico di Fase II su pazienti con distrofia muscolare di Becker (BMD).
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Vi lascio il link del mio ultimo Post/discussione su ....." Giochi e Divertimenti" ovviamente sempre su Carenity
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Creo questa Nuovo “Post Discussione” per parlare, Discutere di cose della Vita, Del tipo…. Domande Capaci di Catturare delle Attenzioni e che Aspettano una Risposta, cose Strane ma Vere, domande di Interessi, Cultura Sociali e Globali, di attualità , Scienze, Enigmi, Rompicapi, Riflessioni, Dubbi, Quiz, Quesiti, incertezze ecc.ecc. Dove Spero che ci sia uno Scambio di Opinioni parlandone Tutti insieme e Magari senza volere troviamo un Mezza Verità.... Mai dire Mai!. Dove anche una semplice risposta che potrà sembrare stupida a prima vista ci potrà far Riflettere, Analizzarla, Studiarla ponendo altre domande alla domanda, insomma una Specie di Dibattito tra Utenti , Amici, anche solo Giusto per Azionare il Cervello e Passare un pò di Tempo insieme senza stare a pensare alle solite cose tristi e Tenerci impegnati a Leggere, Ragionare e interagire su tante cose comuni e Non. Domande di vario interesse. Ovviamente Chiunque può postare una qualsiasi domanda interessante e Lecita su qualsiasi argomento sempre con il dovuto Rispetto Reciproco. ok Scagli la Prima Pietra chi Non ha una Domanda senza Risposta! Pensando di fare cosa Gradita ….Un Abbraccio.
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