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Siete pazzi a mangiarlo !
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Baptiste
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Baptiste
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Ciao @EUREKA e grazie per questa discussione. Devo vedere con il team di Carenity se si può fare dal punto di vista giuridico. Ti faccio sapere
Un caro saluto.
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SIETE PAZZI A MANGIARLO!
Nota dell’editore italiano
Secondo un’indagine compiuta dalla Coldiretti, del marzo 2016, in Italia due prosciutti su tre venduti come italiani provengono da maiali allevati all’estero, tre cartoni di latte su quattro sono stranieri senza indicazioni di provenienza in etichetta, come metà delle mozzarelle e il concentrato di pomodoro (i cui arrivi dalla Cina sono aumentati del 379% nel 2015 per un totale di 67 milioni di chili). Per quanto riguarda il miele, uno dei prodotti più falsificati, un barattolo su due non è di origine italiana, e una quantità rilevante di quello in commercio è contraffatto.
Prologo
Consumatori, siete voi che avete il potere!
Tieni sempre presente
che il buon burro è la base della buona cucina,
e ricordati che fare il furbo è tipico degli imbecilli.
La Filosofia di Georges Courteline, 1922
Per quasi vent’anni ho lavorato per grandi aziende del settore agroalimentare, molto note e tutte ampiamente fornite di certificazioni e marchi di qualità, ma la cui
etica era solo una facciata. Per queste società, il cibo non ha nulla di nobile: si tratta unicamente di un business, di un mezzo per fare soldi, sempre più soldi. Potrebbero fabbricare altrettanto bene, o altrettanto male, pneumatici o computer.
Sono stati anni difficili, perché la mia visione idealizzata del cibo mal si accordava con la realtà che vivevo. Mi sarebbe piaciuto acquistare i migliori ingredienti, e che la mia Azienda realizzasse prodotti di cui andar fieri, prodotti che potessi consumare io stesso con golosità o far mangiare ai miei figli con totale fiducia. Mi sarebbe piaciuto nutrire il mondo con pietanze industriali, certo, ma preparate a partire da ricette sane, da formule nutrizionali equilibrate. Eravamo ben lontani dal farlo, sia a parole che nei fatti, ma dovevo pur mantenere la famiglia… E a volte mi dicevo che porsi troppe domande, a cui il mio lavoro forniva soltanto brutte risposte, non faceva altro che rendere le cose più difficili.
Eppure alcune domande meritano attenzione. Sapete mangiare? Vi siete già interrogati sul posto che il cibo occupa nella vostra vita? Su cosa è buono? Su cosa significa “mangiare sano”? È importante? Lo è per noi? Per i nostri figli? Sono tutte domande fondamentali che pochi tra noi si pongono seriamente e di cui ancora meno persone conoscono le vere risposte.
Noi siamo ciò che mangiamo, nel vero senso della parola. Gli alimenti sono nientemeno che i materiali di costruzione del nostro corpo. E converrete con me che, affinché una costruzione duri cent’anni, bisogna scegliere i materiali migliori. E ammetterete anche voi che difficilmente si potrà avere un corpo da atleta mangiando solo hamburger e patatine fritte con bibite gasate.
Nutrirsi bene significa anche prendersi cura di sé. Si tratta di una verità nota fin dalla notte dei tempi. Già nell’antichità, Ippocrate affermava: «Che il tuo cibo sia la tua medicina e la tua medicina sia il tuo cibo». In tempi più recenti, Linus Pauling, premio Nobel per la chimica nel 1954, ripeteva instancabilmente che «un’alimentazione ottimale è la medicina del futuro».
Il cibo non è mai stato così abbondante e così a buon mercato. Secondo i dati dell’INSEE1, i francesi oggi spendono in media per l’alimentazione poco più del 15% del loro reddito, ossia la metà di ciò che si spendeva negli anni Cinquanta. Il nostro pianeta nutre sette miliardi di persone, che saliranno a dieci miliardi nel 2050. La fame e la malnutrizione non sono più i flagelli che furono nei secoli passati e potrebbero persino essere completamente debellate con una distribuzione ottimale delle risorse alimentari disponibili.
Tuttavia, questi progressi non sono privi di contropartita. L’utilizzo ad alte dosi di molecole chimiche (pesticidi, fungicidi e altri trattamenti agricoli, antibiotici promotori della crescita e ormoni di sintesi per il bestiame, additivi alimentari…) inquina l’ambiente e avvelena lavoratori e consumatori. Le monocolture praticate su vasta scala (ulivi in Spagna, palme da olio in Malesia, mandorli in California) distruggono gli ecosistemi e riducono la biodiversità.
L’omologazione dei gusti e il cibo spazzatura sono responsabili di una vera e propria epidemia mondiale di malattie cardiache, cancro, obesità, diabete e allergie. Il numero di persone in sovrappeso nel mondo2 è salito vertiginosamente, passando da 850 milioni nel 1980 a più di due miliardi nel 2013, vale a dire quasi un terzo della popolazione mondiale. Nel solo anno 2010, dai tre ai quattro milioni di persone sono morte nel mondo a causa di complicanze legate all’obesità, e questa cifra continua ad aumentare. Oggi le persone che muoiono perché mangiano troppo e male sono più di quelle che muoiono perché non mangiano abbastanza!
A questo aggiungete gli eccessi del capitalismo, che spingono a produrre sempre di più a costi sempre più bassi in una corsa sfrenata ai profitti a breve termine e che hanno portato a clamorosi scandali alimentari in tutto il mondo.
Beninteso, la frode esiste dalla notte dei tempi. I Greci e i Romani dovevano vedersela con vino, farina e olio d’oliva adulterati. Nel 1820, il chimico tedesco Friedrich Accum pubblicò a Londra un Trattato sull’adulterazione dei cibi e sui veleni culinari in cui descriveva le frodi più diffuse nella capitale inglese agli albori della Rivoluzione industriale: polvere di piselli secchi mescolata al caffè, olio d’oliva contenente ingenti quantità di piombo, caramelle colorate con ossidi di rame, aceto mescolato con acido solforico per aumentarne l’acidità…
Ma soprattutto, analisi alla mano, denunciò coloro che si dedicavano a una frode allora molto diffusa e che consisteva nel sostituire il luppolo con la stricnina o l’acido picrico nella birra, pratica responsabile di numerosi decessi ogni anno.
Accum, che fu il primo a lanciare l’allarme, denunciando quelle truffe si fece così tanti nemici che fu costretto a lasciare l’Inghilterra. Tuttavia, come Machiavelli, di cui Rousseau diceva che era «un uomo onesto e un buon cittadino» e che «ha dato grandi insegnamenti ai popoli», Accum ha reso un immenso servizio ai consumatori del suo tempo. Svelando come nei loro piatti o nei loro bicchieri si potessero trovare dei veri e propri veleni, e indicando quali, ha permesso loro di proteggersi e ha contribuito a ridurre queste pratiche.
Si potrebbe pensare che dal 1820 le cose siano migliorate e che abbiamo avuto il tempo e i mezzi per debellare le frodi alimentari. La popolazione oggi è più istruita, meglio informata, le analisi sono più precise, i servizi sanitari ben radicati, le norme igieniche e di tracciabilità stabilite. Eppure ogni giorno le notizie ci dimostrano che gli imbroglioni continuano a imperversare, spesso giocando d’anticipo, e che i controlli, quando esistono, sono troppo leggeri.
Se fossero stati presi i giusti provvedimenti (che spesso sono molto semplici), uno scandalo come quello della carne di cavallo non si sarebbe potuto verificare. Esso dimostra che non ci si può fidare né delle marche internazionali più conosciute né dei servizi sanitari degli stati più progrediti, che si presume debbano proteggere i cittadini. È prima di tutto una crisi di fiducia generale. Ed è proprio per questo motivo che quello scandalo, sebbene non abbia lasciato dietro di sé morti o feriti, ha avuto una risonanza così enorme.
A chi credere, dunque? Chi dice la verità, se le liste degli ingredienti mentono e i controlli più elementari non vengono eseguiti?
Oggi, con molta modestia, ma come ha fatto Friedrich Accum prima di me, voglio essere utile al maggior numero possibile di persone, a tutti i consumatori tenuti deliberatamente nell’ignoranza e nell’illusione. È la ragione per cui, con questo libro, ho deciso di infrangere la legge del silenzio e di svelare le derive dell’industria agroalimentare. Basandomi su tutti questi anni di esperienza duramente acquisita, rivelando pratiche fraudolente e agendo così a vantaggio della salute di tutti, sento che sto semplicemente facendo il mio dovere. Non è lo scandalo ciò che cerco, ma l’interesse generale: il vostro, il mio, quello dei nostri figli, quello delle generazioni future.
Mi accingo dunque a raccontarvi tutto per permettere a voi consumatori di evitare i trabocchetti che vi vengono tesi e – perché no? È bello sognare per due minuti – di far cessare o perlomeno limitare quelle pratiche dubbie. Informarvi, educarvi perché, bisogna esserne ben consapevoli e non dimenticarlo, alla fine siete voi che avete il potere di cambiare le cose acquistando o decidendo di non acquistare. Ecco il mio obiettivo e lo scopo di questo libro.
Non comprate più a occhi chiusi, pretendete che i politici, le associazioni dei consumatori e l’industria si impegnino seriamente a stabilire una serie di norme di qualità e di onestà; siate vigili, diffidenti, cercate le informazioni nascoste e condividetele4. Utilizzate i social network per fare pressione ed esigere un’alimentazione di qualità. Battetevi per il divieto totale dell’uso nel vostro cibo di molecole artificiali prive del minimo interesse nutrizionale, che vi avvelenano in modo subdolo e insidioso e sono una delle principali cause di allergie, disturbi comportamentali e altri disordini più gravi sul lungo periodo.
Prendete le redini della vostra alimentazione, mangiate sano, e possiate vivere a lungo e in buona salute.
1. L’INSEE è in Francia l’Istituto nazionale di statistica e studi economici.
2. Secondo uno studio esaustivo delle cause di mortalità in 188 paesi (su 197 riconosciuti dall’ONU) pubblicato dalla rivista medica americana «The Lancet» nel maggio 2013 e coordinato da Christopher Murray, direttore dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’università di Washington.
3. Ho volontariamente – e per motivi di riservatezza – mescolato le esperienze vissute in alcune delle aziende con cui ho collaborato per vent’anni. Ho anche ribattezzato tutte queste società con lo stesso nome generico: “l’Azienda”
4. Si veda a questo proposito l’epilogo del presente libro, Piccola guida di sopravvivenza al supermercato.
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Benvenuti nel meraviglioso mondo dell’agroalimentare
Capitolo 1
L’industria agroalimentare è il mio lavoro quotidiano. Ci lavoro da più di vent’anni. Vi ho svolto diverse mansioni: ingegnere, compratore, trader, direttore degli acquisti; in piccole e medie imprese o in grandi gruppi. In Francia e altrove. Ho fatto più volte il giro del mondo e ho visitato centinaia di stabilimenti. Sono stato testimone, e a volte attore, di alcune pratiche a cui generalmente non si fa pubblicità. Non voglio certo ricoprire di ignominia il mondo dell’agroalimentare nel suo insieme perché, fortunatamente, la grande maggioranza delle aziende ci tengono a fare il loro dovere. Né voglio accusare questa o quella società in particolare. Molte vanno alla deriva perché vi sono indotte dalle leggi del mercato e della concorrenza e si lasciano andare a delle “soluzioni di comodo” che credono provvisorie.
Negli uffici e negli stabilimenti dell’agroalimentare, ci si imbatte come in qualsiasi altro ambiente in persone inacidite, che esercitano una professione che dà loro “da mangiare” ma che non hanno veramente scelto. Sballottate dai casi della vita, approdate lì, e in fondo rassegnate in mancanza di meglio, schiere di impiegati abbattuti contano le ore e i giorni che li separano dal prossimo weekend, dalle ferie estive su una spiaggia di sabbia fine o, per i più fortunati, da una meritata pensione, sinonimo di liberazione definitiva.
Non è assolutamente il mio caso. Io adoro il mio lavoro, il mio ufficio, i miei colleghi, e niente mi rilassa più di un giretto in uno dei nostri stabilimenti. Mi piace attraversare i reparti rumorosi dove si affaccendano gli operatori in tenuta da chirurgo, passeggiare nei vasti magazzini pieni fino a scoppiare di pallet di prodotti finiti perfettamente allineati, e sentire gli odori di spezie o di cioccolato che vi aleggiano.
Per quel che mi ricordo, ho sempre desiderato lavorare nel settore agroalimentare. Le avventure di Hänsel e Gretel e di Charlie con la sua fabbrica di cioccolato non sono certo estranee alla mia vocazione. Così, spinto da una golosità metafisica, ho ben presto scelto questa strada che, negli anni della giovinezza, speravo gloriosa e ingenuamente lastricata di dolciumi e pan pepato, o perlomeno di formaggio artigianale al latte crudo. DOC, beninteso.
La Francia non è forse la gastronomia del mondo? Non abbiamo la cucina migliore, i più grandi cuochi e, va da sé, la più favolosa industria agroalimentare dell’universo?
Da ragazzo, osservavo con ammirazione il lavoro di mio nonno, modesto viticoltore in Provenza, che mi iniziò alla coltivazione dell’uva e alla produzione del vino. Durante le vacanze, mio zio, un omino grassoccio con la faccia rubizza e i baffi arruffati (immaginate Stalin, ma in versione simpatica e buontempona), distillatore di vino lorenese, mi lasciava sorvegliare l’alambicco che trasformava il mosto di pere Williams e di susine Mirabella in gocce trasparenti. Ero affascinato dai loro strumenti, torchi, botti e alambicchi, e schiettamente ingannato dal loro sapere, da quella magia che trasformava un banale frutto in una limpida essenza, in un estratto di aromi e di forza. A quattordici anni trascorrevo le vacanze scolastiche a raccogliere frutta nei frutteti di Provenza. A sedici, riempivo cassette per uno spedizioniere di frutta e verdura. A partire dai diciotto, mi pagavo gli studi controllando la qualità delle consegne di materie prime in un conservificio di verdure.
I miei studi? In campo alimentare, naturalmente. Diplomato nella miglior scuola per ingegneri agroalimentari di tutta la Francia, nientemeno. Posso prepararvi, a occhi chiusi e quasi con niente, del formaggio alle erbe aromatiche, dell’olio di vinaccioli, del pâté di fegato, o ancora burro, aceto, yogurt, pane, zucchero raffinato, minestre disidratate, zuppa di aragosta in scatola, latte UHT e molto ma molto altro. Basta chiedere.
Siccome la direzione di uno stabilimento non mi sembrava una posizione propizia alla mia realizzazione personale, ho preso un master in management e, dopo una serie di sei colloqui, vari test grafologici e pseudoscientifici, e molti salamelecchi, ho ottenuto un impiego di trader in una grossa società di trasformazione e di import-export… di prodotti alimentari, ovviamente.
Nel corso dei vent’anni passati in questo ambiente, ho comprato, venduto e fatto trasformare ogni genere di prodotto delle industrie agroalimentari. All’interno delle aziende successive ho salito con garbo i gradini fino ai consigli di amministrazione e guadagnato tanti bei quattrini, e probabilmente non avrei scritto nulla se non ci fosse stata quella penosa storia del cavallo che si credeva un manzo e che ha fatto tanto rumore. Perché, in effetti, la carne di cavallo è molto buona, molto sana. Perciò in questa faccenda cosa c’è di male? E perché poi fare tutta questa cagnara proprio adesso? Sì, perché non è la prima volta (e sicuramente non sarà l’ultima) che si verifica questo tipo di imbroglio, e la volta precedente, all’epoca, non aveva suscitato altrettante reazioni. Vi ricordate di quando nel 2001 la rivista «Capital» aveva fatto analizzare dei ravioli Leader Price alla “carne di maiale e di manzo brasato”?
I risultati? I famosi ravioli non contenevano nessun dna né di maiale né di manzo, bensì brandelli di cartilagine, pezzi di ghiandole salivari e residui di tessuto renale provenienti da… carcasse di tacchino! Niente maiale e niente manzo, né brasato né bollito.
Come vedete, la storia si ripete. E, del resto, come poteva essere altrimenti, se dal 2001 a oggi le autorità non hanno mai messo in campo nessun controllo serio?
Questa faccenda del cavallo mi ha dato l’occasione per riflettere e valutare le cose con la necessaria obiettività. È stata l’elemento scatenante che mi ha portato a scrivere questo libro. L’enorme risonanza che ha avuto mostrava che l’atteggiamento dei consumatori si era evoluto, rispetto al 2001, e in maniera molto più rapida di quello dei professionisti (industriali e distributori) e delle autorità. Che ci fossero o no delle vittime, in fondo, poco importava: d’ora in poi i consumatori volevano sapere tutta la verità ed esigevano che venissero presi provvedimenti per garantire loro un’alimentazione sana e di qualità. Così ho capito che eravate pronti per ascoltare le rivelazioni che avevo da farvi.
Sono sempre stato un dipendente fedele e obbediente delle società per cui ho lavorato. E, se ho commesso qualche errore – oggi le chiamano “colpe morali” –, credo comunque di essere alla fine meno colpevole degli ispettori sanitari che chiudono gli occhi a comando, delle associazioni dei consumatori troppo tenere e dei politici più inclini a soffocare uno scandalo che a prendere le misure necessarie per evitarlo.
L’ignoranza crassa del consumatore e un vago senso di nausea riguardo a certe pratiche malsane dell’industria e del commercio, molto più diffuse di quanto non si immagini, mi spingono ad alzare un lembo del velo che nasconde questi sporchi piccoli segreti. In questo modo, miei fortunati lettori, i prossimi scandali alimentari che immancabilmente si verificheranno non vi coglieranno più di sorpresa.
Benvenuti nel lato oscuro dell’industria agroalimentare. Ma tenetevi forte: non tutto profuma nelle cucine del diavolo.
Continua ---->>> con il Capitolo 2
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Capitolo 2
Il pericolo giallo!
Non è certo mia intenzione stigmatizzare o additare questo o quel paese come il più grande truffatore del pianeta. Tuttavia, bisogna riconoscere che la corsa allo sviluppo, almeno per soddisfare i bisogni essenziali di una popolazione che per la maggior parte manca ancora di molte cose, oltre alla scoperta del profitto, ha fatto della Cina il paradiso della corruzione e del suo corollario, la frode. Gli esempi pullulano e il florilegio che segue è solo una minuscola porzione della parte emersa dell’iceberg. Le autorità di Pechino cercano di mettere ordine, ma gli ci vorrà parecchio tempo per riuscirci. E la globalizzazione ci impone di restare vigili.
Nel settembre 2008 scoppia in Cina l’enorme scandalo del latte contaminato con la melammina (o cianurammide), uno dei principali costituenti della fòrmica. Questa sostanza chimica tossica, ricca di azoto, è stata aggiunta fraudolentemente al latte per aumentare artificialmente il tasso di proteine, che in effetti di solito viene stimato misurando la quantità di azoto presente nel prodotto. In questo modo, i truffatori lo fanno apparire più ricco e di miglior qualità di quanto sia realmente.
Ora, l’ingestione della melammina provoca negli uomini e negli animali la formazione di calcoli responsabili di dolorosi problemi renali e urinari che possono arrivare, nei soggetti fragili come i bambini piccoli, all’insufficienza renale grave o addirittura alla necrosi dell’organo e alla morte del soggetto.
L’ampiezza della frode è tale che la maggior parte del latte di uso corrente in Cina, liquido o in polvere, è contaminata, così come i prodotti che ne contengono, come lo yogurt, il formaggio, il cioccolato, i biscotti e le caramelle mou.
Sfortunatamente il latte maternizzato non fa eccezione, e ovunque nel paese i bambini si ammalano: ufficialmente più di 300.000, 52.000 dei quali vengono ricoverati; i morti accertati sono almeno sei. Dal momento che la censura ci è andata giù pesante, il numero delle vittime è in realtà più elevato, e le cifre possono essere agevolmente raddoppiate.
In seguito all’inchiesta ufficiale, i consumatori cinesi scoprono con stupore che ventidue dei più grandi marchi agroalimentari del paese si dedicavano da anni a questa pratica. Le autorità direttamente implicate, per negligenza o per corruzione, vengono costrette a dimettersi e ci sono quarantadue arresti. Alla fine di dicembre del 2008, diciassette industriali finiscono sotto processo, e il 22 gennaio 2009 due di loro sono condannati a morte. Vengono giustiziati il 24 novembre 2009. Gli altri imputati sono condannati a pene detentive che vanno dai cinque anni all’ergastolo.
In un paese come la Cina, dove per arginare l’esplosione demografica il regime ha imposto ai suoi cittadini un unico figlio per coppia, i bambini sono particolarmente amati e protetti. Questo dramma ha traumatizzato l’intera popolazione.
Il latte in polvere maternizzato importato, divenuto improvvisamente un prodotto di lusso, è tuttora oggetto di un vasto contrabbando. Il 1° marzo 2013, Hong Kong è persino stata costretta a imporre delle quote agli acquirenti cinesi non residenti. Oggi per loro è proibito lasciare il paese con più di due barattoli a testa, pena una multa che può raggiungere l’equivalente di 50.000 euro e due anni di carcere.
Tutto ciò nonostante il fatto che, secondo le statistiche ufficiali delle dogane cinesi, le importazioni verso la Cina di latte in polvere per l’infanzia dall’Australia e dalla Nuova Zelanda si siano sestuplicate dopo la crisi.
La stessa cosa vale per il latte standard. La perdita totale di fiducia dei consumatori cinesi nel loro prodotto nazionale ha provocato una vera e propria esplosione delle importazioni. Così, nel periodo compreso tra il 2007 e il 2014, le importazioni di latte in forma liquida sono passate da 4.800 tonnellate a più di 300.000 tonnellate e quelle del latte in polvere da meno di 200.000 tonnellate a più di un milione di tonnellate.
Ormai i consumatori cinesi, sempre più informati soprattutto grazie ai social network, hanno perso fiducia nella loro produzione locale. Il governo, che si è impegnato a fare pulizia e ad assicurare la “sicurezza alimentare”, ha fallito, screditato dagli scandali a ripetizione, di cui riassumo qui di seguito i più recenti.
– Aprile 2011: circa 300.000 panini “ingialliti” tramite l’aggiunta di una pittura tossica per simulare la presenza di granturco tra gli ingredienti sono stati smerciati nei supermercati di Shanghai. L’industriale disonesto non esitava a rimettere in vendita pane scaduto riconfezionato.
– Settembre 2011: il cosiddetto scandalo dell’“olio di scolo”. Decine di arresti, che hanno avuto grande risalto sui media, per la vendita di olio da frittura adulterato. Acque unte e residui di oli e altri grassi usati venivano recuperati nei ristoranti, e persino negli scarichi, per essere riciclati come olio da tavola. È stato stimato che quest’olio rappresentava il 10% di tutto quello consumato nel paese.
– Novembre 2011: un centinaio di persone condannate, tra cui una alla pena capitale, per un vasto traffico di maiali trattati con clenbuterolo, un anabolizzante cancerogeno che ha anche gravi effetti cardiovascolari e neurologici.
– Maggio 2012: scoppia il caso degli orticoltori dello Shandong e dell’Hebei, nell’Est della Cina, che trattavano i loro cavoli con formolo, cancerogeno, per migliorarne la conservazione. Dopotutto, visto che funziona con i cadaveri…
– Marzo 2013: regione di Shanghai. In seguito allo smantellamento della “mafia del maiale”, che smerciava come carne commestibile gli animali morti di malattia, più di 15.000 carcasse di maiale galleggianti vengono ritrovate nel fiume che attraversa Shanghai. Naturalmente le autorità assicurano che ciò non ha alcuna ripercussione sulla qualità dell’acqua, e non viene identificato nessun colpevole. Circolate, non c’è niente da vedere.
– Maggio 2013: nelle regioni dello Jiangsu e del Guizhou, rispettivamente Cina orientale e meridionale, carne di topo o di volpe viene venduta come manzo o pecora. Il ministero della Sanità annuncia che «904 sospetti sono stati arrestati» e che «più di 20.000 tonnellate di prodotti fraudolenti o di bassa qualità a base di carne» sono state sequestrate in 382 differenti aziende.
– Gennaio 2014: Walmart, la prima catena di supermercati nel mondo, ha dovuto ritirare dagli scaffali di alcuni dei suoi punti vendita cinesi la carne d’asino, molto consumata in Cina, perché conteneva carne di volpe. Già nell’ottobre 2011, il più alto responsabile di Walmart in Cina si era dimesso dopo un primo scandalo riguardante della carne di maiale a cui era stato falsamente attribuito il marchio di qualità “bio”.
– Luglio 2014: uno stabilimento di Shanghai, filiale del gruppo americano OSI, che fabbricava nuggets di pollo, bistecche e polpette di manzo per McDonald’s, KFC e altri grandi nomi del fast food, viene chiuso per aver riciclato carne scaduta mischiandola con carne fresca.
– Novembre 2014: scandalo detto del “tofu tossico”. Un centinaio di tonnellate di tofu contenenti idrossimetansolfinato di sodio (un agente sbiancante cancerogeno vietato) sono state sequestrate nello Shandong, nello Henan e nello Jiangxi.
– Dicembre 2014: un’inchiesta della televisione pubblica CCTV sul commercio di carne di maiale avariata, contaminata da un non meglio precisato “virus contagiosissimo”, porta all’arresto di dodici sospetti, alla destituzione di otto alti funzionari, alla distruzione di un macello illegale e alla chiusura di un secondo.
Già maltrattate dall’era comunista e dalla scomparsa di una certa élite intellettuale, l’etica e la morale cinesi hanno poi subito gli effetti del precipitoso passaggio all’economia di mercato: una corsa folle al successo materiale e all’arricchimento che è diventata uno sport nazionale dove troppo spesso il fine giustifica i mezzi, anche i più inconfessabili.
Alcuni industriali cinesi sono pronti a tutto pur di arricchirsi in fretta e, per il momento, la corruzione generalizzata, i controlli scadenti e una regolamentazione lassista non hanno permesso alle autorità di sradicare queste pratiche. Tutt’altro.
Ebbene, se pensate che tutto ciò sia molto triste per i consumatori cinesi ma che non vi riguardi, vi sbagliate di grosso.
Innumerevoli prodotti alimentari cinesi vengono esportati in tutto il mondo, compresa l’Europa. Quasi cinque miliardi di euro in prodotti alimentari cinesi sono stati importati in Europa nel solo 2013.
Già nella primavera del 2007, la melammina era stata individuata in grande quantità nel cibo per animali made in China commercializzato negli Stati Uniti. Questa frode aveva provocato la morte di più di 8.500 animali, essenzialmente cani e gatti.
Alla fine del 2008, in Francia, alte dosi di melammina vengono di nuovo trovate in 300 tonnellate di pani di soia importate dalla cooperativa Terrena ad Ancenis (Loira Atlantica) e vendute in undici dipartimenti.
Sempre alla fine del 2008, viene rinvenuta della melammina in diversi prodotti alimentari destinati agli esseri umani e preparati con latte contaminato. Innanzitutto in Germania, a Stoccarda, in alcuni negozi di dolci del marchio White Rabbit, ma anche in certi tipi di biscotti della marca Koala distribuiti in tutto il Belgio e in Francia.
E non è tutto. Per mancanza di mezzi ma soprattutto di reale volontà politica, nonché per il desiderio di non offendere questo partner così suscettibile, solo una piccolissima parte dei prodotti alimentari importati dalla Cina sono stati controllati per sapere se contenessero o no questa famigerata sostanza. Ma tenete presente che lo scandalo della melammina rappresenta soltanto un’infima parte delle frodi commesse in Cina. Avremo occasione di parlare più nel dettaglio di altri prodotti alimentari preparati in questo paese e importati in massa in Europa, prodotti che conosco bene perché io stesso ne ho acquistati per anni: centinaia di container e non so quante migliaia di tonnellate.
E questo fenomeno inquietante delle frodi cinesi non riguarda affatto soltanto i prodotti alimentari. Macché. Il 23 marzo 2015 la Commissione Europea ha diffuso un comunicato in cui si metteva in guardia i consumatori dell’Unione Europea contro i prodotti importati dalla Cina, che da soli rappresentano il 64% dei 2.435 prodotti pericolosi repertoriati dal sistema di allerta rapido RAPEX nel 2014. «Sono sorpresa dal numero di prodotti pericolosi provenienti dalla Cina» ha dichiarato la commissaria europea per la giustizia e la tutela dei consumatori, Veˇra Jourová. «La situazione non migliora» si è lamentata, sottolineando che il numero di prodotti pericolosi fabbricati in Cina segnalati nel 2014 era equivalente a quello del 2013.
Cara Veˇra, le do il benvenuto nel mondo reale. Certo che la siesta è stata lunga. Scoprire solo oggi la minaccia dei prodotti cinesi di cattiva qualità, quando tutti i professionisti che lavorano con la Cina lo sanno da venti o trent’anni…
Ma restiamo nell’ambito che ci interessa, quello delle frodi alimentari. Se, per quanto riguarda la loro ampiezza e le loro conseguenze estreme, la Cina è un caso a parte, bisogna comunque sapere che non ne detiene certo il monopolio. Peperoncino contenente un colorante tossico in India, paprika ionizzata sudafricana, miele turco con zucchero industriale liquido… Gli esempi provenienti da paesi “esotici” non mancano.
Ma facciamo un po’ di pulizia anche in casa nostra: lo scandalo alimentare che tutti abbiamo in mente oggi in Europa, dal 2013, è il “caso Findus”: la carne di cavallo al posto del manzo nelle lasagne. Ci torneremo più avanti, ma una delle lezioni che possiamo trarre da questo scandalo è che non siamo al riparo neanche dalle frodi abilmente orchestrate da imprese di casa nostra. E queste imprese io le conosco a menadito.
Continua ---->>>> Capitolo 3
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CAPITOLO 3
Prendere in giro il… Consumatore
L’Azienda aveva una mentalità particolare, con dei valori suoi propri, diversi da quelli che si imparano a scuola, e una visione tutta sua del Bene e del Male. Nel caso specifico, il Bene era tutto ciò che aumenta il profitto, il Male era perdere soldi. La menzogna, la dissimulazione, la malafede e persino la truffa, senza essere degli scopi in sé, erano positive, se miglioravano i risultati attesi. Il detto secondo cui «il fine giustifica i mezzi» non poteva essere meglio illustrato.
Conoscevamo perfettamente tutte le falle del sistema e cercavamo continuamente il modo di sfruttarle a nostro vantaggio. La versione industriale della famosa ottimizzazione fiscale. Mentivamo di continuo: ai nostri clienti, ovviamente, inventando per loro delle belle storie; ai fornitori, chiaramente; alle dogane e agli altri enti statali, a cui raccontavamo frottole tanto sulla qualità dei prodotti quanto sulla loro origine. Be’, forse sto esagerando, perché le persone dell’ambiente non si lasciavano abbindolare del tutto e conoscevano bene quanto noi le sottigliezze del sistema.
E dovete sapere che in molti casi è fin troppo facile, perché la bugia è legalmente organizzata. Che lo vogliate o no, sarete spinti a oltrepassare la linea rossa.
Vi piacciono le lumache di Borgogna? E i porcini di Bordeaux? E la senape di Digione? E le erbe di Provenza?
Tutti questi prodotti li ho comprati e venduti per anni, li conosco molto bene. Quello che probabilmente il cliente non sa è che tutti questi buoni prodotti – che l’industria agroalimentare vende con la complicità dei supermercati dove fate la spesa nel weekend – non vengono dalla Borgogna o dalla Provenza, anzi per la maggior parte non sono nemmeno francesi. Il gioco consiste nel farlo credere, per ispirare fiducia e per vendere a un prezzo più alto un prodotto d’importazione in tal modo “naturalizzato”.
Ho comprato intere navi cariche di semi di senape indiana, canadese o australiana per produrre migliaia di tonnellate di “senape di Digione” in Germania e in Olanda, cioè ben lungi dalla capitale dei duchi di Borgogna.
E le “erbe di Provenza” per le vostre grigliate? Di Provenza? Ma neanche per sogno! Il timo viene dal Marocco o dall’Albania, il basilico e la maggiorana dell’Egitto e il rosmarino dalla Tunisia. Perché mai? Ma è ovvio! Perché chiaramente sono molto meno cari dei loro equivalenti francesi. 35
Le lumache vengono dalla Borgogna? No, dalla Russia, dalla Lituania, dalla Polonia o da qualche altro paese dell’Est… Cˇernobyl’ e dintorni, avete presente? Altre specie commestibili provengono dalla Turchia e addirittura alcune, le più insipide e indigeste (la cosiddetta chiocciola africana gigante o Achatina fulica), che non hanno nemmeno diritto all’appellativo di “lumache”, arrivano in blocchi congelati dall’Indonesia o da altre zone del Sudest asiatico.
Naturalmente la bestiola viene lavorata nel paese d’origine secondo i metodi locali, prima di arrivare nei vostri piatti o nel ristorante sotto casa. Sottigliezza estrema: è perfettamente legale etichettare la confezione con la dicitura “lumache di Borgogna lavorate in Francia”, se l’ultimissima tappa – che consiste nel mettere un po’ di burro erborinato nel guscio – viene eseguita in Francia.
Ricordo con emozione la mia prima visita in Turchia, a una fabbrica di trasformazione delle lumache. Era la fine dell’estate e la temperatura era torrida. Dopo un breve e gradevole viaggio a bordo di una nave traghetto partita da Istanbul, siamo penetrati nella periferia industriale della città portuale di Bandirma, un ammasso di edifici brutti e privi di interesse sul leggendario mar di Marmara.
Ho fiutato la fabbrica molto prima di vederla. In un vasto cortile di cemento erano allineate come immensi termitai decine di mucchi di gusci di lumaca vuoti, ciascuno alto più di tre metri. Miriadi di insetti svolazzanti attorno ai monticelli si affaccendavano ronzando incessantemente. Alla base dei mucchi, un denso succo nero coperto di mosche si spandeva in pozze dai bordi essiccati, screpolati, sul pavimento di cemento bollente. Respiravo con la bocca perché l’aria carica di odori putridi non mi arrivasse alle narici. Avvicinandomi un po’ di più, notai che alcuni gusci contenevano ancora qualche frammento d’intestino di lumaca e delle graziosissime larve, di un bel bianco, che si contorcevano tutte.
In quel modo, i gusci venivano ripuliti naturalmente dal sole e dagli insetti. Quando non c’erano più residui solidi, si passava il tutto in un bagno di soda caustica, lo si risciacquava, e poi via verso lo stabilimento per la guarnitura. Buon appetito!
Oggi non mangio più lumache, né di Borgogna né di qualsiasi altro posto.
E i “porcini di Bordeaux”? Ovviamente, per la maggior parte arrivano dritti dritti dalla Cina, qualche volta anche dai paesi dell’Est e ogni tanto persino dal Sudafrica.
Fantastico, no? Come possono accadere simili miracoli?
Semplice: la legislazione europea ritiene che “lumaca di Borgogna”, nome scientifico Helix pomatia, e “porcino di Bordeaux”, Boletus edulis, non siano indicazioni di origine geografica, ma comuni designazioni di specie.
Perciò, quando importo stock di queste specie prodotti in condizioni igieniche che farebbero svenire un agente dei nostri servizi sanitari, opero nella più perfetta legalità. Certo, la qualità di queste merci è scadente sotto tutti i punti di vista, ma i nostri clienti, industriali e ipermercati, sono ben felici di poter proporre ai consumatori porcini di Bordeaux imbottiti di vermi cinesi allo stesso prezzo dei fagiolini.
Nel caso della “senape di Digione” o delle “erbe di Provenza”, è la ricetta che conta. Gli ingredienti possono venire da qualsiasi posto, poco importa. Lo stesso vale per il “camembert” o per il “brie” che l’Australia esporta in quantità nel mondo intero, in Asia come in Russia passando per gli Stati Uniti.
È ovvio che “trasformato in Francia” non significa assolutamente “d’origine francese”, per niente! Le realtà che si nascondono dietro queste formule ambigue sono molto diverse. Un pollo “Origine Francia”, per esempio un pollo di Bresse, è una vera garanzia. È un prodotto di qualità, trattato nel rispetto delle norme sanitarie più severe. Ma produrlo è costoso e i consumatori sono piuttosto spilorci.
Nei nostri cassoulet in scatola “trasformati in Francia”, le ali di pollo (in genere provenienti da vecchie galline giunte al termine della loro vita da ovaiole) vengono dal Brasile o dalla Thailandia, trasportate in salamoia (per evitare di pagare i dazi doganali sui prodotti in scatola) via nave.
Come vengono allevati questi polli? Cosa mangiano? Come vengono curati? A che età vengono macellati? Perché l’Europa autorizza l’importazione di carni provenienti da paesi che utilizzano antibiotici e altri stimolanti della crescita chimici proibiti in Europa? Noi dell’Azienda ce ne freghiamo: non mangiamo mai pollo in scatola.
Imbrogliare il consumatore è facilissimo, in più è legale! Mi spingerei persino a sostenere che si è istigati a farlo.
Bisogna dire però che anche il consumatore è un po’ sprovveduto, per non dire completamente scemo, il che rende le cose ancora più facili. Basta presentargli – per esempio nel caso di un prodotto tipo crema spalmabile alle nocciole, che contiene essenzialmente olio e zucchero (obesità assicurata) – una pubblicità con un bicchiere di latte e delle nocciole, ingredienti minori, per fargli credere che il prodotto sia sano. Eppure tutto è chiaramente indicato sulla lista degli ingredienti. Le casalinghe non sanno forse leggere?
Con lo yogurt è la stessa cosa. Un vasetto con una forma e un colore sexy, un nome simpatico, un aroma, un po’ di zucchero e voilà, vi fanno credere che state acquistando una pozione magica che rafforza le vostre difese naturali, fa crescere i capelli, assicura una pelle liscia e luminosa, rende intelligenti, regala fascino ecc.
La maggior parte dei consumatori manca di spirito critico e si lascia prendere in giro facilmente. Non è educata all’igiene alimentare di base e non ha veramente voglia di informarsi. Non sa leggere le liste degli ingredienti e non capisce niente dei valori energetici e nutrizionali. Troppo facile, ve l’ho detto!
E le associazioni di consumatori che dovrebbero vegliare su di voi, suonare il campanello d’allarme, denunciare, far sì che le cose migliorino? Bella domanda. Non ci hanno mai creato problemi. Evidentemente non cercano molto, trovano di rado e attaccano ancor meno. Tuttavia, per vostra informazione, sappiate che dai nostri vicini tedeschi funziona in maniera un po’ diversa. Le loro associazioni di consumatori, per esempio Foodwatch, creata nel 2002, portano avanti delle vere e proprie azioni e sono molto più efficaci delle nostre nell’ottenere il ritiro di certi prodotti o nel far cambiare le cattive pratiche e persino la regolamentazione.
Lo ripeto, non bisogna credere che l’impresa per cui lavoravo fosse un caso raro e isolato. Alcune società non esitano a spingersi ancora oltre e giocano su un nome “nostrano” per adescare il cliente. Comprate le scarpe (made in China) del marchio “Calzature dello Stivale” o la frutta (cilena o sudafricana) dell’“Antico Pometo Italiano”? Benché i nomi evochino il vostro paese e la tradizione, non sono altro che prodotti importati di qualità molto inferiore.
Caso esemplare: un mattino, vedo sulla mia scrivania un catalogo della società X France. Questa società manda dei cataloghi di coltelleria ai comitati d’azienda. Siccome amo i coltelli di qualità, sfoglio la brochure con curiosità. Nel catalogo figurano ben in evidenza le diciture “maestria”, “artigianato”, “fatto a mano” e “X France” con un bel logo tricolore blu, bianco e rosso. Constato che i prezzi sono molto ragionevoli e che ci sono numerose promozioni. Ma, guardando le foto più da vicino, mi rendo ben presto conto che la qualità è palesemente molto al di sotto di una lavorazione artigianale francese come quelle di Laguiole o di Nogent. Osservo meticolosamente le informazioni riportate sul catalogo e non trovo nessuna indicazione di origine. Consulto internet in cerca di chiarimenti. Secondo voi dov’è la sottigliezza? Semplicemente vi rifilano dei coltelli cinesi di bassa qualità! L’indicazione della provenienza è “dimenticata”, ma in compenso i colori della bandiera francese e le indicazioni valorizzanti no. Siete sconcertati?
Questione di punti di vista. Per quanto mi riguarda, direi piuttosto che è una maniera sottile di interpretare una legislazione vaga, elaborata da tecnocrati incompetenti sotto la pressione dei lobbisti dell’industria e della grande distribuzione.
Ma, in questo giochetto delle origini, a volte il limite viene allegramente superato. Come nel caso di quel produttore di funghi in scatola del Sudest della Francia che è stato condannato per aver scritto “prodotto francese” su scatoloni di funghi… cinesi al 100%.
Che idiota. Imbastire a casa sua un “procedimento industriale” anche minimo gli avrebbe permesso di dichiarare legalmente che i suoi funghi erano “trasformati in Francia”. Per esempio gli sarebbe bastato svuotare gli scatoloni su un tavolo e subito dopo tornare a riempirli dicendo di aver fatto un “controllo visivo” o una “raccolta differenziata”. Io ne so qualcosa. Anche noi avevamo la nostra propria linea di “raccolta differenziata”.
Ciò mi porta del tutto naturalmente a descrivervi il lucroso mercato dei tartufi del Périgord di Cina sul quale la mia società ha imperversato per qualche anno.
Ancora prima del mio arrivo, l’Azienda aveva aperto un ufficio acquisti in Cina per essere più vicina alle zone di produzione dei prodotti di m… ehm, dei prodotti economici.
Il filibustiere che gestiva l’ufficio mi aveva spedito una lista di nuovi prodotti che avremmo potuto commercializzare. Uno tra questi ha subito attirato l’attenzione del mio capo.
«Cazzo, tartufo a 30 euro al chilo! Dobbiamo assolutamente importarlo. Guadagneremo tanti di quei soldi da farci placcare in oro i coglioni!»
Per un breve attimo l’ho immaginato con i testicoli dorati, poi mi sono rituffato nel lavoro per scacciare dalla mente quella visione da incubo.
Trovare clienti per il tartufo nero a 30 euro al chilo – quando il prezzo del tartufo nero del Périgord, varietà Tuber melanosporum, può avvicinarsi ai 1.000 euro – è stato un gioco da ragazzi. L’unico piccolo problema è che il tartufo di Cina non è della stessa varietà. È il Tuber indicum (o sinense o himalayense, in realtà non l’abbiamo mai capito esattamente, e per dirla tutta non frega niente a nessuno).
Rispetto al tartufo nero europeo, la venatura della polpa e la superficie possono presentare delle leggere differenze che, a quanto pare, gli esperti sono capaci di individuare. Ma sono soprattutto le spore che consentono di identificarli senza ambiguità. Quindi i nostri clienti ci hanno naturalmente chiesto dei tartufi di Cina non ancora giunti a maturazione, vale a dire con le spore non ancora formate, dunque quasi impossibili da distinguere dai tartufi europei.
Così abbiamo importato dalla Cina decine di tonnellate di questi tartufi, piccoli e senza gusto, che vendevamo a dei commercianti francesi specializzati in tartufo, soprattutto nella zona di Carpentras.
Il prodotto era esplicitamente designato come tartufo di Cina, senza alcuna dissimulazione. Una cosa che, tenetelo presente, non era nelle nostre corde. Le fatture e gli altri documenti d’importazione erano con formi alla legge, l’origine e la varietà del prodotto figuravano in modo chiaro e incontrovertibile. Quindi i nostri clienti sapevano perfettamente cosa compravano.
Questi rivendevano poi i tartufi cinesi a certe loro società, chi in Spagna, chi in Lussemburgo, e “dimenticavano” – certo per distrazione – di indicare sui documenti, al passaggio della frontiera, l’origine cinese. L’ultima tappa consisteva nel riesportare verso la Francia questo tartufo nero diventato melanosporum e, da quel momento, originario della Spagna, dell’Italia o addirittura della Francia stessa, a seconda dei desideri dell’acquirente e dei prezzi di mercato. Vi lascio calcolare il margine di guadagno realizzato.
Questi tartufi senza sapore si ritrovano in ogni tipo di pâté e di fois gras nonché in molte altre preparazioni tartufate. Con una bella dose di aroma artificiale di tartufo risulta molto gradevole agli occhi e alle papille di chi non ne sa niente, cioè praticamente di tutti.
Quindi non è così strano che si trovi solo raramente la menzione “tartufo di Cina” sulle confezioni dei prodotti a base di tartufo. Viene da pensare che il tartufo cinese abbia una caratteristica peculiare tutta sua: quella di volatilizzarsi.
Continua --->>> Capitolo 4
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CAPITILO 4
Occhio non vede, peso non duole
Un’impresa non è un servizio sociale dello stato. La sua finalità non è il benessere dei suoi dipendenti o la soddisfazione dei suoi clienti, ma il profitto, o il margine di guadagno. E per creare profitto, la ricetta non è molto complicata: basta comprare o produrre a un costo inferiore a quello di vendita. La differenza tra il costo di acquisto o di produzione e il prezzo di vendita è il margine: più è sostanzioso, meglio è. Se si capisce questo, non serve fare un master in management.
Sfortunatamente per i professionisti dell’agroalimentare, la tendenza attuale, da diversi anni a questa parte, non è al rialzo dei prezzi di vendita. I loro clienti, le centrali d’acquisto della grande distribuzione, si contano sulle dita di una sola mano e sono in posizione di quasi monopolio. Naturalmente ne approfittano e rifiutano sistematicamente qualsiasi aumento di prezzo dei loro fornitori, fosse anche perfettamente giustificato, per esempio dalla semplice inflazione, o dal rincaro del prezzo delle materie prime o dell’energia. I produttori di frutta e verdura del Sudest della Francia, o di maiale bretone, ne sanno qualcosa.
In compenso, la grande distribuzione (ipermercati e supermercati) non si fa scrupolo di gonfiare con discrezione i suoi già generosi margini di guadagno. Niente di più facile, dal momento che non esiste una vera concorrenza. Per ridurre i suoi costi d’acquisto, le basta spremere gli industriali, soprattutto i piccoli che non hanno i mezzi per difendersi. A questo scopo, i distributori hanno inventato ingegnosi sistemi di fatturazione di prestazioni fittizie (pubblicità, affitto di spazi…), in più gli infliggono tutta una serie di penali sotto i più futili pretesti (per esempio una consegna incompleta o in ritardo dopo che gli ordini sono stati stilati in modo irregolare e si sono stabiliti dei tempi e degli orari di ricezione volutamente troppo stretti), o ancora gli estorcono degli sconti fornitori1 esorbitanti, pena l’eliminazione dei loro prodotti dai propri assortimenti.
Per quanto riguarda il prezzo di vendita, è ancora più facile. Poiché anche lì poche sigle si spartiscono la torta senza reale concorrenza, tanto vale attingere direttamente dalle tasche dei clienti “prigionieri” aumentando regolarmente i prezzi, tutti insieme, come un sol uomo, mentre beninteso si punta il dito contro quei cattivoni dei grandi industriali. Qualcuno si ricorda della campagna organizzata da quel distributore che aveva ritirato dai suoi scaffali i prodotti del marchio La vache qui rit e affisso nei suoi punti vendita dei manifesti che denunciavano gli “aumenti ingiustificati”? Ovviamente invitava i suoi affezionati clienti ad acquistare, invece di quelli, i sottoprodotti “equivalenti” della sua sottomarca. L’industriale poteva forse mettere anche lui dei manifesti nei supermercati per spiegare la situazione? Be’… no! Il supermercato informava forse i suoi clienti circa il margine che prendeva su La Vache qui rit…? Ehm… Nemmeno!
Dal momento che la realtà è quella che è, oggi un produttore non può aumentare i propri prezzi. L’unica soluzione che gli resta per sopravvivere è dunque di produrre a costi ancora più bassi. A questo scopo, l’abbassamento della qualità ha rappresentato in questi anni una possibilità ampiamente praticata; tuttavia anche questa soluzione ha i suoi limiti. Fortunatamente (per lui) l’industriale scaltro ha anche la possibilità di giocare sul peso netto dei suoi prodotti e di vendere meno conservando la stessa confezione e lo stesso prezzo, il che è in realtà una subdola forma di aumento.
Avete notato che negli ultimi anni i biscotti Prince hanno perso il 10% del loro peso? Dall’oggi al domani, il peso della confezione da 15 biscotti è passato da 330 a 300 grammi, mentre il prezzo non è cambiato. Eppure gli spot pubblicitari non ne fanno menzione. Strano, no?
Questa drastica dieta dimagrante è stata impietosamente applicata ai vasetti di dessert alla panna Danette nelle confezioni da 16 (ma, chissà perché, non a quelle da 4…), che ora pesano solo 115 grammi anziché 125; al barattolo di formaggio fresco Jockey, che è passato da un chilo a 850 grammi; alla confezione di vinaigrette à l’ancienne Amora, che adesso contiene 450 millilitri di prodotto invece dei 500 di prima; alle scatolette di tè in bustina, che sono passate da 25 a 20 bustine; al sacchetto di plastica dello zucchero in polvere, che contiene 750 grammi invece del chilo dei vecchi sacchetti di carta; alle tavolette di cioccolato da 150 grammi invece che da 200; alle barrette al cioccolato più corte, alle fette di prosciutto sempre più sottili, ai pacchetti di riso striminziti e così via. E tutto ciò senza abbassare il prezzo di vendita all’unità. Anzi, a volte capita addirittura che aumenti.
Ma quello alimentare non è l’unico ambito interessato, come potete facilmente immaginare. Questo strano fenomeno di dimagrimento ha colpito anche i detersivi, i cosmetici e molte altre categorie merceologiche.
Nella mia Azienda, da veri professionisti responsabili, non abbiamo voluto restare tagliati fuori da questa tendenza: non sarebbe stata una mossa furba. Quando una tendenza generale è lanciata, presto o tardi – concorrenza oblige – non avrete altra scelta che seguirla.
Uno dei nostri stabilimenti, molto specializzato e all’avanguardia nel campo dell’automatizzazione, produceva bustine monodose di senape, maionese, ketchup e altre salse. Il che si traduceva, su base annua, in centinaia di milioni di bustine (di carta o di pellicola plastica stampata) e di coppette di plastica o di alluminio, ciascuna contenente qualche grammo di prodotto, di quelle che capita spesso di trovare nei ristoranti.
Uno dei nostri clienti più grossi, uno dei leader mondiali del fast food, minacciava di mollarci se non allineavamo i nostri prezzi a quelli di un concorrente belga, molto noto per la sua qualità scadente ma anche per le sue tariffe aggressive. La posta in gioco per noi era importante, perché diverse linee di produzione dello stabilimento funzionavano ventiquattro ore su ventiquattro esclusivamente per questo cliente. In quelle linee ultramoderne avevamo investito milioni, tutti pagati a credito. E, come sapete, Grecia a parte, un debito va saldato; il che sarebbe diventato impossibile se avessimo perduto quel mercato.
Le cose sono andate più o meno nel modo seguente.
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Siamo arrivati a un punto di rottura con il committente di X. Se non abbassiamo il prezzo della senape monodose perdiamo tutto il mercato, e questo non possiamo permettercelo.
IL DIRETTORE DELLO STABILIMENTO. Cosa possiamo fare? Già in teoria dovremmo metterci della senape di Digione, nelle bustine, invece non è che lo rispettiamo proprio alla lettera, il capitolato d’appalto… Dovremmo chiamarla senape forte, e anche così…
IL VOSTRO UMILE SERVO. Compro già i semi di senape meno cari in circolazione, ho persino fatto arrivare dall’India due container di semi minuscoli e imputriditi. Non posso abbassare la qualità, è già la più bassa possibile. Lo stesso vale per l’aceto, come livello siamo rasoterra.
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Pare che un belga abbia fatto un’offerta meno cara dell’8%.
TUTTI GLI ALTRI. Questi belgi!
IL DIRETTORE COMMERCIALE. E se diminuissimo la grammatura?
IL DIRETTORE DELLO STABILIMENTO. Siamo a 5 grammi, non è un gran peso! Di quanto vuoi scendere?
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Abbastanza per guadagnare almeno l’8% del prezzo.
IL VOSTRO UMILE SERVO. Se il ribasso deve essere interamente assorbito dalla senape, allora bisogna diminuire la quantità almeno del 15 o del 20%. Ci ritroveremo con una bustina da 4 grammi.
imputriditi. Non posso abbassare la qualità, è già la più bassa possibile. Lo stesso vale per l’aceto, come livello siamo rasoterra.
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Pare che un belga abbia fatto un’offerta meno cara dell’8%.
TUTTI GLI ALTRI. Questi belgi!
IL DIRETTORE COMMERCIALE. E se diminuissimo la grammatura?
IL DIRETTORE DELLO STABILIMENTO. Siamo a 5 grammi, non è un gran peso! Di quanto vuoi scendere?
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Abbastanza per guadagnare almeno l’8% del prezzo.
IL VOSTRO UMILE SERVO. Se il ribasso deve essere interamente assorbito dalla senape, allora bisogna diminuire la quantità almeno del 15 o del 20%. Ci ritroveremo con una bustina da 4 grammi.
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Vada per i 4 grammi, ma bisognerà regolare le macchine al millimetro e riuscire a consumare meno di 4 chili per 1.000 unità. Se arriviamo a 3,95 sarebbe meglio.
IL VOSTRO UMILE SERVO. Ma il cliente non dirà nulla se abbassiamo il peso del 20%?
IL DIRETTORE COMMERCIALE. Paga al pezzo e, se la gente chiede la senape con le patatine, gliene dà una bustina. Di quello che c’è dentro la bustina non gliene frega niente, vuole solo che gli costi meno al pezzo…
È stato così che siamo riusciti a conservare il nostro prezioso cliente. È vero che d’ora in poi, per avere una quantità ragionevole di prodotto, ci vorranno due o tre bustine di senape, o di ketchup, mentre prima ne bastava una. E siccome adesso sapete che queste bustine vengono vendute al pezzo, non faticherete a capire che, se i consumatori hanno bisogno di più pezzi per soddisfare lo stesso bisogno, per noi è un’ottima cosa.
Per le spezie in boccetta è stato un po’ più complicato. Nel caso di un flacone di vetro o di un vasetto di plastica trasparente, il contenuto e il livello del prodotto si vedono. Se il vasetto non è abbastanza pieno fa una brutta impressione, il cliente si chiede dove sia finito il prodotto mancante e si sente ingannato.
Così abbiamo ridisegnato la boccetta per ridurre il suo volume interno del 10%. Il 10% sembra niente, ma, su milioni di unità vendute, si arriva molto in fretta a volumi e somme considerevoli.
Il denaro risparmiato diminuendo il peso genera automaticamente margine di guadagno, senza costose campagne pubblicitarie, senza che ci si rovini assumendo altri commerciali e senza dover pagare la grande distribuzione perché metta i vostri prodotti in una posizione migliore sui loro scaffali. È un margine netto, un utile diretto.
Certo, per il cliente è diverso. Se siete abituati a mangiare un vasetto di dessert alla panna a fine pasto, ora ne mangerete 115 grammi anziché 125. Lo stesso vale per i biscotti e le barrette al cioccolato: ne mangerete meno per lo stesso prezzo di prima. Gli ottimisti potranno rassicurarsi dicendosi che per la loro salute è molto meglio. Meno grassi, meno zucchero… Solo il conto sarà un po’ più salato.
1. Si tratta della cosiddetta marge arrière (“margine arretrato”), che la legge francese classifica pudicamente sotto la definizione di “altri vantaggi finanziari”: è uno sconto imposto dal distributore al fornitore come contropartita della messa in risalto dei suoi prodotti nei negozi o sui volantini. Alla fine degli anni 2000 questi sconti erano dello 0,5%, mentre oggi si attestano tra il 12 e il 30%.
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CAPITOLO 5
Una tempesta in un bicchier di latte!
La Francia è il paese dei formaggi. Non si dice forse che possiamo mangiarne uno diverso per ogni giorno dell’anno? Sfortunatamente è sempre meno vero, perché i prodotti tradizionali e di qualità tendono a scomparire, rimpiazzati sugli scaffali dei supermercati da prodotti industriali insipidi e standardizzati.
Oggi soltanto il 5% dei camembert venduti sono al latte crudo, tutti gli altri sono fabbricati con latte termizzato, sterilizzato, inseminato artificialmente. Non si può dire che siano cattivi, sono solo senza carattere né finezza. I consumatori medi consumano prodotti medi. Molti non hanno mai avuto la fortuna di gustare un vero livarot di fattoria avvolto in fasce di giunco naturale, un sublime banon affinato in un involucro di foglie di castagno, o un langres aranciato al latte crudo leggermente concavo alla sommità, segno caratteristico di una buona stagionatura.
Con la perdita del gusto, non bisogna sorprendersi se noi industriali, con i nostri complici della grande distribuzione, ci mettiamo a vendere qualsiasi cosa dandole il bel nome di “formaggio”. Sappiate che non usiamo più del vero formaggio nelle nostre preparazioni, anche se c’è scritto sulle confezioni: è troppo caro.
E allora come si fa?
Semplicissimo! Basta fabbricare un “formaggio” ricostituito che contiene un po’ – il meno possibile – di formaggio con una denominazione d’origine. L’obiettivo è conservare il nome valorizzante del formaggio sostituendolo al massimo grado con ingredienti meno cari. E l’ingrediente migliore, da questo punto di vista, è… suspense… l’acqua. Eh sì, non abbiamo ancora trovato niente di più economico della buona vecchia acqua del rubinetto.
Per esempio, e anche questa è esperienza vissuta, per una salsa al bleu d’Auvergne prendete un po’ – il meno possibile – di bleu d’Auvergne e lo mescolate con acqua, formaggio industriale all’ingrosso di basso livello, burro, proteine del latte, panna, latte in polvere, polifosfati e ortofosfati di sodio, citrato di sodio e acido citrico. Fate fondere l’insieme, rimestate bene e otterrete uno splendido “formaggio fuso” contenente del bleu d’Auvergne che figurerà in buona posizione nella lista degli ingredienti. In più, avrete diritto alla magnifica foto di una generosa fetta di bleu d’Auvergne sulla confezione.
Siccome il termine “formaggio fuso” è una designazione ufficiale regolamentata, sfortunatamente non si può fare proprio qualunque cosa. Per esempio, ci vuole il 40% minimo di materia secca (ciò che resta una volta che si è tolta tutta l’acqua dal prodotto), il che limita considerevolmente la quantità di acqua che gli si può aggiungere.
Allora, per abbassare ancora di più il costo, si ha la possibilità di passare nella categoria delle “specialità casearie” contenenti del bleu d’Auvergne. È sempre regolamentata, ma in modo molto più flessibile. Si può dividere per due la percentuale di materie secche e quindi aggiungere ancora più acqua, sottoprodotti del latte e altri ingredienti economici come zucchero o spezie.
Se è ancora troppo caro, si può infine fare a meno della denominazione ufficiale o molto semplicemente inventarne una. Noi abbiamo sviluppato del “fondente di formaggio”. Ammetterete che è maledettamente azzeccato! Non è “formaggio fuso” né una “specialità casearia”, quindi si può fare quello che si vuole e dargli il nome grazioso che preferiamo.
Sono i “fondenti” di questo tipo che ritrovate grattugiati sulle pizze, sui piatti gratinati o nelle salse industriali. E, credetemi, potete davvero trovare, senza cercare molto, piatti gratinati al cantal senza cantal, tortellini gratinati al groviera senza groviera…
Se già per i professionisti è molto complicato districarsi in questa faccenda delle denominazioni e distinguere chiaramente la differenza tra “fondenti”, “specialità casearie”, “creme di formaggio” e altri “formaggi fusi”, non fatico a immaginare come debbano sentirsi smarriti i clienti.
Inutile piangere sul latte “vessato”, dirà qualcuno. Tuttavia, bisogna avere ben presente che i formaggi fusi servono essenzialmente a valorizzare formaggi industriali insipidi e di cattiva qualità, merce invenduta e partite difettose. È una poltiglia dalla composizione incerta e imbottita di additivi come per esempio i sali di fusione, riguardo ai quali gli industriali vi giureranno che sono del tutto inoffensivi, omettendo di segnalare che la legislazione limita il loro utilizzo. E, che siano autorizzati o meno, pensate che mandar giù polifosfati, ortofosfati e altri citrati sia una cosa sana? Che sia naturale?
I francesi sono giustamente orgogliosi che il pasto gastronomico alla francese sia oggi inserito dall’UNESCO nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Ebbene, questo riconoscimento deve molto alla nostra lunga tradizione casearia, all’eccellenza dei nostri prodotti lattieri artigianali. Un prodotto nobile come un formaggio DOC, che fa parte del nostro patrimonio comune, dovrebbe essere meglio conosciuto, protetto e valorizzato. Dovremmo tutti estasiarci davanti a questi prodotti d’eccezione, alla loro varietà, alla loro ricchezza aromatica. Dovremmo promuoverli e sforzarci di consumarli, anche se sono un po’ più cari delle schifezze industriali, perché il piacere che procurano è ineguagliabile.
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CAPITOLO 6
Il mio amico Additivo
Uno dei reparti più importanti di ogni impresa alimentare che si rispetti è il cosiddetto R&S, “Ricerca e Sviluppo” per i non iniziati. All’interno dell’Azienda, questo reparto impiega decine di ingegneri, aromatieri e tecnici in laboratori superattrezzati.
Questo forse stupirà la maggior parte dei consumatori che pensano sia sufficiente avere una buona ricetta per produrre deliziosi biscotti o bei piattini preparati in modo “tradizionale”. Qualcuno immagina persino che nei nostri stabilimenti lavorino degli chef come accadrebbe in un ristorante di quartiere, soltanto su una scala più vasta e con ingredienti di prima scelta. Ricredetevi subito: nulla di tutto ciò esiste. In uno stabilimento agroalimentare ci sono solo operai concentrati sulle loro macchine e qualche dirigente imbronciato. Nessun cuoco col cappello bianco, nessuna lattaia alla Vermeer in grembiule e cuffietta, né lattivendole o chiunque possiate immaginare sotto l’influsso di pubblicità fantasmagoriche. A ogni modo, in un caseificio il latte o gli yogurt non si vedono neanche. Tutto avviene in tinozze chiuse o in tubi d’acciaio inox.
Fabbricare un prodotto alimentare è prima di tutto una questione di tecnologia, un processo industriale come un altro. Abbiamo bisogno di ingegneri e di tecnici, come in una raffineria o in una centrale elettrica. Non è stato un cuoco a mettere a punto la macchina a ultrasuoni che monta due tonnellate di maionese in un minuto e mezzo, il surgelatore ad azoto liquido che sputa fuori una pizza surgelata al secondo, il saturatore a salamoia sotto pressione che raddoppia il peso dei prosciutti, l’evaporatore sotto vuoto a triplice effetto e altre meraviglie che fanno progredire l’umanità.
Ma il reparto R&S non lavora solo sulla fase relativa al processo: si interessa anche al cuore del prodotto, alla ricetta. E anche qui possono verificarsi dei bei miracoli quotidiani. A permettere simili prodezze è l’utilizzo massiccio di additivi, la versione moderna delle polverine magiche. Oggi in Francia quelli autorizzati sono più di trecento: ce n’è per il colore o per il sapore, per la buona conservazione, per addensare, per abbassare le calorie, per evitare che un cibo schiumi o diventi appiccicoso, perché luccichi, crocchi o sia bello gonfio, e per molte altre funzionalità. Nel vostro supermercato non esiste praticamente alcun prodotto alimentare che non ne contenga almeno uno, se non addirittura un intero, sapiente cocktail di additivi di ogni tipo. E, anche quando nell’elenco degli ingredienti non trovate additivi (le famose “E-qualcosa”), non crediate che non ci sia nulla da aggiungere: se ne può sempre buttare dentro qualcuno con discrezione, senza dire niente ai consumatori, e per di più del tutto legalmente. Sono i famosi “coadiuvanti tecnologici”, una categoria di additivi che può non figurare sulla lista degli ingredienti!
Dunque qual è la differenza tra “additivi alimentari” e “coadiuvanti tecnologici”? Perché nella regolamentazione esistono queste due categorie distinte? È molto semplice: ciò che le differenzia è unicamente il dosaggio. La quantità rimanente nel prodotto finito è molto più consistente per un additivo alimentare che per un coadiuvante tecnologico. Tutto qui.
Le definizioni ufficiali sono molto simili. Infatti, quella di coadiuvante tecnologico è la seguente: «Ogni sostanza che non viene consumata come ingrediente alimentare in sé, che è volontariamente utilizzata nella trasformazione di materie prime, prodotti alimentari o loro ingredienti per rispettare un determinato obiettivo tecnologico in fase di lavorazione o trasformazione che può dar luogo alla presenza, non intenzionale ma tecnicamente inevitabile, di residui di tale sostanza o di suoi derivati nel prodotto finito, a condizione che questi residui non costituiscano un rischio per la salute e non abbiano effetti tecnologici sul prodotto finito».
Ci sono due cose che personalmente trovo “divertenti” in questa definizione. La prima è che si riconosce senza nessuna ambiguità che queste sostanze non sono alimenti, ma se ne autorizza comunque la presenza negli alimenti. In poche parole, non sono commestibili ma potete mandarle giù.
La seconda cosa, ancora più scioccante, è che si è del tutto consapevoli che la presenza di residui nel prodotto finito è “tecnicamente inevitabile”, ma nulla obbliga il produttore a informarne il consumatore, anche se alcune sostanze sono riconosciute come cancerogene (nitriti negli insaccati, benzopirene nei prodotti affumicati), neurotossiche (solventi organici, come per esempio l’esano, utilizzati per l’estrazione di certi oli e aromi) o allergizzanti (solfiti).
Certo, si prende la precauzione di affermare che «questi residui non presentano rischi per la salute». Quindi dovete sentirvi perfettamente rassicurati, no?
E fate bene! Prendiamo il caso emblematico dei coloranti “azoici” (molecole a doppio legame azoto-azoto), un esempio perfetto di additivi chimici. Essi presentano numerosi vantaggi: stabilità chimica (ph e temperatura), intensità di colore e lunga conservazione. In confronto a un colorante naturale, i coloranti azoici sono cinque volte più vivaci e molto più economici (sì, ancora una questione di soldi). Ebbene, prima del 10 luglio 2010 queste molecole «non presentavano rischi per la salute», mentre a partire da quella data i produttori che le utilizzano devono indicare sulla confezione: «Può influire negativamente sull’attività e l’attenzione dei bambini». Ecco una sostanza – largamente utilizzata nell’industria dolciaria, nelle bevande e in un sacco di altri prodotti alimentari – che “diventa” pericolosa dall’oggi al domani. E notate la forza delle nostre certezze scientifiche in materia: «Può influire negativamente».
Prima di tutto: su cosa influiscono negativamente? Ah, sull’attività e l’attenzione! E cosa vuol dire? Si rischia di addormentarsi, di svenire, un collasso, il coma? O al contrario di diventare iperattivi, idioti, sognatori, distratti? E per quanto tempo? Dopo averne ingurgitato quale dose?
E solo i bambini? Allora, suppongo che non ci siano problemi per le donne incinte e per le persone cagionevoli e anziane, giusto? E, quanto ai bambini, fino a che età è pericoloso? Nessun problema per gli adolescenti?
Trovo che l’indicazione «un consumo eccessivo può avere effetti lassativi», usata per gli edulcoranti del tipo polioli1, sia più esplicita. Sebbene… Sempre questa prudenza, quel “può avere” così rassicurante.
Sappiate anche che un additivo può essere autorizzato in Francia e vietato negli Stati Uniti o in qualsiasi altro posto del pianeta e viceversa, e che non esiste armonizzazione a livello europeo per i coadiuvanti tecnologici. Vedete bene che l’innocuità di queste sostanze non è facile da stabilire e che la lista delle sostanze autorizzate e i dosaggi consentiti cambiano costantemente a seconda dei nuovi studi o delle pressioni delle varie lobby.
Certi additivi sono come il maquillage. Hanno un’azione superficiale sul prodotto in quanto agiscono sull’estetica nel senso più ampio, senza modificarne la struttura. È il caso tipico dei coloranti che vengono aggiunti al concentrato di pomodoro marrone per restituirgli un rosso appetitoso, o all’acqua per farla sembrare succo d’arancia.
I coloranti sono dappertutto. Alcuni sono “naturali”, come la polvere di barbabietola, la cocciniglia e gli estratti di certe piante, altri sono pure e semplici invenzioni della chimica moderna. Esiste anche una via di mezzo: è il caso dei prodotti naturali che subiscono un trattamento chimico, come il caramello solfito-caustico (E150b), ammoniacale (E150c) e solfito-ammoniacale (E150d).
Quello che bisogna sottolineare, riguardo ai coloranti, è che non apportano niente di positivo al consumatore. Al contrario. Il loro ruolo è di mascherare i difetti o di rendere bello un prodotto di qualità scadente. Se ne potrebbe perfettamente fare a meno senza che l’umanità abbia minimamente a soffrirne. In più, una buona parte di essi è nota per avere effetti allergizzanti, irritanti e perfino, per quanto concerne i più chimici, potenzialmente cancerogeni e mutageni. Per non riparlare dei coloranti azoici, che adesso conoscete bene.
Gli additivi preferiti del mio reparto R&S sono quelli che trasformano il prodotto in maniera radicale. Qui non siamo più nell’ambito della cosmetica, ma entriamo nel campo della chirurgia. Non si cerca più solamente di migliorare le qualità sensoriali, ma di ottenere maggior profitto aumentando il peso del prodotto. E adesso sapete che, per farlo, basta aggiungere degli ingredienti economici e soprattutto più acqua possibile.
Ora, come certo sospetterete, l’acqua rende il prodotto liquido, privo di consistenza. Ma niente panico, in questo caso si usano degli addensanti come la gelatina, l’amido, il guar, la carruba o lo xantano, degli emulsionanti e degli stabilizzatori.
Lo yogurt è troppo caro? Nessun problema, si aggiunge un po’ d’acqua, gelatina e amidi modificati. Non si dice più “yogurt” ma “preparato lattiero”. In ogni caso, il consumatore non ci capisce niente, e poi basta rifilargli un bel nome genuino e scriverlo in grande sulla confezione.
Tuttavia, non crediate che la nostra vita di industriali dell’agroalimentare sia facile: quando si mette troppa acqua, il prodotto si conserva meno bene. Ma, anche in quel caso è tutto a posto, c’è una soluzione: i solfiti. Antimicotici (impediscono la proliferazione dei funghi e altre putrefazioni), inibitori del lievito, ecco la base del conservante perfetto. Be’, sì, è vero, può far ammalare gli individui sensibili, ma non si può far la frittata senza rompere le uova… per quanto.
E poi, a seconda dei prodotti, si possono anche utilizzare, in perfetta legalità, l’acido benzoico, i benzoati, le anidridi solforose, i derivati del fenolo, i formiati, i nitrati, l’acido etanoico, i lattati, i propionati, gli ascorbati, l’acido fumarico… Dopo aver aggiunto acqua, additivi testurizzanti e altri conservanti, e dopo aver elaborato il colore con l’aiuto di un colorante adeguato, non resta che perfezionare il sapore con l’aroma adatto.
Ah, gli aromi! Già solo loro sono un universo intero. Ne esistono di tutti i tipi: aroma di ketchup, di maionese o di pollo arrosto, aromi di frutta, di formaggi, di manzo bollito o arrosto, di brodo di verdure… Esistono persino aromi semplicissimi come “pane” o “burro”. E non solo. Non c’è limite. Ci sono innanzitutto degli estratti naturali ottenuti a partire da differenti parti di piante aromatiche, come l’estratto di vaniglia ottenuto a partire dal baccello di vaniglia. Ma ci sono anche molecole inizialmente naturali che sono state poi modificate chimicamente, come le proteine vegetali idrolizzate con l’acido che danno un vago sapore di carne. E ci sono molecole di sintesi che assomigliano, almeno nella loro formula chimica, alle molecole naturali: è il caso della vanillina di sintesi, definita “identica a quella naturale”. Infine ci sono sostanze totalmente artificiali, senza alcun rapporto con qualsivoglia sostanza naturale, frutto degli immensi progressi della chimica moderna, come l’etilvanillina, che è tre volte più forte della vaniglia naturale.
Una piccola parentesi per divertirvi, anche questa tratta dalla mia esperienza personale. Si potrebbe pensare che gli estratti naturali siano da privilegiare, ed è quello che credevo anch’io fino al giorno in cui:
«Vieni con me in sala riunioni!» esclamò un mattino il mio boss fiondandosi in sala pausa come un diavolo a molla saltato fuori dalla scatola e facendomi rovesciare metà del caffè.
Non avevo fatto in tempo a rispondergli che se n’era già andato, facendomi dubitare per un attimo della realtà della sua intrusione.
«Dovresti andarci subito» mi fece notare il mio collega Dany (di cui riparleremo più tardi). «Non ti preoccupare, lo asciugo io il caffè sul pavimento.»
Siccome potevo contare sulle dita di una mano le volte in cui il capo aveva interrotto la mia pausa caffè con Dany, sapevo che era una cosa seria. Partii a passo di corsa col mio bicchierino semivuoto e lo raggiunsi in sala riunioni. Eravamo soli.
«Abbiamo un problema con il tè biologico al limone!» esordì senza preamboli.
Ripassai mentalmente gli errori che potevo aver commesso con quel prodotto e… no, niente… a meno che…
«Il commerciante all’ingrosso mi vende tè bio di Ceylon,» mi lanciai «e siccome è meno caro di tutti gli altri venditori del 20%, noi lo sappiamo bene che non è veramente tè di Ceylon, ma nessun altro può saperlo e…»
«Non è questo il problema» mi interruppe con lo sguardo immerso in un foglio di analisi posato davanti a lui, su cui vedevo dei cromatogrammi (risultati di analisi chimiche molto precise sotto forma di grafici). «Hanno trovato dell’imazalil, del tiabendazolo, del pirimetanil e del carbendazim negli ultimi lotti fabbricati. Abbiamo 50.000 scatole di bustine che sono un problema.»
«Analisi di clienti?»
«No, fortunatamente per il momento sono interne, e le quantità sono basse. Dovrebbe farcela, ma voglio sapere da dove vengono questi c… di pesticidi. In teoria dovremmo fare roba biologica!»
«Non capisco… Le analisi che ci ha fatto avere il fornitore sono buone e abbiamo fatto alcune controanalisi che si sono rivelate altrettanto buone. Non abbiamo trovato pesticidi nel tè. Davvero non capisco.»
«Non possono mica essere caduti dal cielo!» si spazientì lui. «In quelle bustine ci sono solo il tè e l’aroma… Hai qualche analisi o garanzia sui pesticidi, riguardo ai tuoi aromi?»
Ovvio che non ne avevamo. Come avrei potuto sospettare che gli estratti naturali di agrumi che compravo fossero pieni di pesticidi? Beninteso, il produttore di quegli aromi, che ne era per forza al corrente, si era guardato bene dal dirmelo.
Gli aromi naturali sono prodotti per la maggior parte tramite tecniche di spremitura (pressione meccanica come nel caso dei miei agrumi), di distillazione o di estrazione tramite solvente, che concentrano gli inquinanti insieme alle molecole aromatiche. Così, dei normalissimi limoni hanno ottime probabilità di produrre un estratto di limone perfettamente “naturale” ma guastato da pesticidi, fungicidi e altre molecole per il trattamento delle colture.
L’ideale, lo avrete capito, sarebbe di usare gli estratti naturali di frutti biologici che subiscono il minimo trattamento chimico; ma è già un’impresa trovarli. E, anche quando ci si riesce, il loro prezzo è proibitivo.
In conclusione, dopo aver smerciato le nostre 50.000 scatole come se niente fosse, abbiamo chiesto al nostro fornitore di consegnarci, per i prodotti biologici, aromi con livelli di pesticidi inferiori alle soglie usuali di rilevazione (quantità minima che le attrezzature di analisi possono individuare).
Questi aromi li trovate nella gran maggioranza dei prodotti alimentari di bassa gamma. La maggior parte dei clienti comprano senza farsi troppe domande, verosimilmente dicendosi che si tratta di un male minore: danno sapore e non sono cari.
Chissà, può ben darsi che tutti quanti ci trovino qualcosa di vantaggioso e che io mi stia preoccupando per niente.
1. I polioli, chiamati anche polialcoli, sono una famiglia di edulcoranti “leggeri”. Fabbricati industrialmente, esistono anche allo stato naturale in piccola quantità in certi vegetali. Entrano anche nella fabbricazione di poliesteri e altri poliuretani.
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C’è odore di bruciato nel regno dei salami
Se nell’industria agroalimentare esistesse una palma della manipolazione, il vincitore sarebbe senz’ombra di dubbio un industriale dei salumi. Gli industriali dei salumi sono dei maghi, dei veri maestri nell’arte di trasformare semplici lucciole in splendide lanterne.
La prima volta che ho discusso con un industriale del salume, ero alla ricerca di un prodotto assolutamente banale: delle fette di prosciutto. Me ne servivano in grande quantità per un nuovo prodotto.
La nostra conversazione telefonica si è svolta più o meno così.
«Buongiorno, ho bisogno di prosciutto per dei croque-monsieur.»
«Ha contattato il posto giusto! Vuole del prosciutto o della spalla?»
«Be’, non saprei, il reparto R&S non me l’ha detto. Qual è la differenza?»
«La spalla è meno cara ma non è prosciutto, che è più caro.»
«Quindi, in questo caso, avrei interesse ad acquistare della spalla.»
«Veda lei, perché in quel caso non può scrivere “prosciutto” sulla confezione.»
«Allora prosciutto, non spalla.»
«Lo vuole di qualità superiore, di prima qualità o standard?»
«Il meno caro!»
«Allora standard. E di quali dimensioni le serve?»
«Mi servono delle fette da dieci centimetri per dieci.»
«Nessun problema, posso farle dei blocchi da dieci centimetri per un metro di lunghezza.»
«Ah sì?»
Mi sono chiesto che razza di maiale potesse mai avere delle cosce lunghe un metro.
«E a che gusto?» mi ha domandato.
«In che senso “a che gusto”?»
«Be’, suppongo che vogliate un aroma. Si mette sempre un aroma. Lo standard senza aroma è scipito. Abbiamo degli aromi al prosciutto semplice, al prosciutto brasato, al prosciutto affumicato, agli odori, alle erbe fresche, alla paprika, al pepe…»
Quando ho riattaccato mi sono chiesto che aspetto avesse la fabbrica del mio contatto. Quando l’ho visitata non sono rimasto deluso e non resisto al piacere di raccontarvelo.
Sono scene emozionanti.
Nel processo-prosciutto, grandi casse di plastica piene di prosciutti arrivano direttamente dal mattatoio. La taglia di questi prosciutti freschi mi ha stupito. Erano relativamente piccoli, se paragonati a quelli che avevo visto facendo la spesa al supermercato come tutti.
La prima tappa consiste per l’appunto nel fargli guadagnare peso. Per questa seduta di pompaggio accelerato, vengono iniettate sotto pressione, per via intramuscolare tramite grossi aghi, delle soluzioni contenenti vari additivi:
– polifosfati, proteine di sangue, e gelificanti per trattenere l’acqua;
– zucchero, glutammati, aromi e fumo liquido per il sapore;
– ascorbato di sodio e sali nitritati per la conservazione.
Ogni industriale ha sviluppato i suoi propri cocktail della casa. La sua arte e la sua abilità sono tutte lì. Dopo questo trattamento d’urto, posso assicurarvi che i prosciutti quasi raddoppiano di volume.
Poi i prosciutti vengono sistematicamente scotennati (tolgono la pelle) e il grasso viene rimosso. Resta solo il muscolo.
A questo punto vengono messi dentro gli stampi per essere cotti. Poi viene loro aggiunto uno strato regolare del grasso che era stato tolto in precedenza, e gli si rimette sopra la cotenna.
È per questo motivo che le fette di prosciutto che acquistate nel vostro supermercato preferito hanno sempre uno strato di grasso perfettamente omogeneo su tutta la lunghezza: non troppo spesso, non troppo sottile. Se lo lasciassero così com’è, avreste delle fette con tre centimetri di grasso da una parte e quasi niente dall’altro. Nessuno le vorrebbe.
Tuttavia, ciò che ho appena descritto vale per i prosciutti di lusso, non per il mio prosciutto di un metro di lunghezza e dieci centimetri di lato. I prosciutti industriali di bassa gamma destinati a croque-monsieur, cordon bleu o pizze surgelate subiscono un altro trattamento: la zangola! I prosciutti vengono disossati, scotennati e sgrassati. Quello che resta, il muscolo, viene messo in una zangola industriale (una grande betoniera in acciaio inox). I muscoli vengono impastati a lungo in un bagno di additivi, finché non si ottiene una specie di pasta. A questo punto, non vi resta altro da fare che colare quel miscuglio dentro gli stampi (nel mio caso, da un metro per dieci), e hop! in forno. Infine, queste barre di carne vanno ad alimentare delle affettatrici automatiche che le tagliano a un ritmo di più di sessanta fette al minuto. La tecnologia è una bella cosa.
Una piccola parentesi per accennare brevemente all’“affumicatura” industriale. Sappiate soltanto che la maggior parte delle porcherie industriali dette “affumicate” non vengono appese a un chiodo conficcato sopra un camino in cui crepita un fuoco di legna. No, no. Oggi l’“affumicatura” si fa di solito con quello che viene chiamato “fumo liquido”. È un aroma che assomiglia al catrame. Lo si diluisce e si inietta la mistura così ottenuta nel prodotto: prosciutto, bacon, pancetta, salsiccia… È rapido, facile ed economico. Niente impianti complicati, legna da comprare e da immagazzinare, nessun rischio di incendio, nessun bisogno di personale qualificato. La felicità. Ora avete capito, è questo che chiamano vendere fumo.
Per il piacere di farlo, avevo calcolato che nel mio croque-monsieur, tra il prosciutto, il formaggio fuso, il pane e altri ingredienti secondari, quasi un 5% di peso lo dovevo agli additivi!
Immaginate la dose di additivi che ingurgita il consumatore del mio croque-monsieur se lo abbina a un bicchiere di bibita light di una grande marca internazionale presente in tutti i nostri supermercati (acido citrico, solfato di magnesio, lattato di calcio, sorbato di potassio, gomma arabica, esteri glicerici della resina di legno, acesulfame, sucralosio e luteina), carote grattugiate di una marca nazionale che sa di campagna (acido citrico, metabisolfito di potassio, gomma di guar, gomma di xantano, gomma di tara, sorbato di potassio) e a uno yogurt alla frutta della marca di un distributore (amido modificato, pectina, luteina, citrato di sodio, sorbato di potassio e fosfato bicalcico).
Il mio consiglio: se avete qualche risparmio, investite in azioni di ditte produttrici di compresse contro il bruciore di stomaco, le allergie o il cancro. Qualcosa mi dice che hanno un grande futuro.
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Come promesso tempo fa, qui vorrei postare un intero libro un bet seller si tratta Christophe Brusset che ha lavorato per diversi anni nell'industria agroalimentare come dirigente di alto livello per importanti aziende del settore. Nel 2016 ha pubblicato Siete pazzi a mangiarlo!, questolibro è andato a ruba per i suoi contenuti veritieri e senza peli sulla lingua. Si tratta di cibo che compriamo nei supermercati, negozi, al mercato, in varie forme di confezione scatolette, barattoli, buste ecc.ecc.. ci spiga cosa mangiamo ovvero il cibo Spazzatura nei minimi dettagli cosa contiene e come viene fatto, lavorato e confezionato, Cose che minimamente ci sogneremmo di trovare nel Cibo, Vi dico già in partenza che è molto lungo pertanto lo dividerò in vari parti e capitoli così sarà più facile e rilassante da leggere.
Sempre sè.... @Baptiste mi dà L' OK !
Buona Lettura