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Siete pazzi a mangiarlo !
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EUREKA
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EUREKA
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Capitolo 17
Un peperoncino troppo rosso per essere onesto
Tuttavia, a voler essere sinceri, c’è stato un affare che è finito male e nel quale non siamo stati per niente furbi.
Tutto era iniziato molto bene, come una bella fiaba per i bambini: c’era una volta un fornitore indiano con cui avevo fatto qualche affare. Mi propose gentilmente, in via del tutto amichevole, uno splendido peperoncino in polvere, a un prezzo che sfidava ogni concorrenza. I campioni erano magnifici; un bel colore rosso, il piccante presente senza essere troppo forte, e un sapore leggermente zuccherino. La Miss Mondo del peperoncino, un prodotto perfettamente adatto ai gusti europei.
Non c’è bisogno di analisi, sappiamo tutti perfettamente, io per primo, che è un prodotto che puzza. Per una ragione molto semplice: il prezzo di questo peperoncino non quadra per niente con la sua qualità visiva. Ha una consistenza molto fine e un colore splendido, brillante, quasi troppo bello per del peperoncino. Dovrebbe costare almeno il doppio di quello che lo pago.
Il suo colore è artificiale, su questo non c’è alcun dubbio. È poco piccante perché non contiene molto peperoncino vero, o comunque contiene una buona dose di peperoncino esausto da cui l’olio essenziale, la capsaicina, è stato estratto. Il gusto leggermente zuccherino, dato da un edulcorante intenso come l’aspartame o la saccarina, in quantità piuttosto bassa, serve a nascondere un retrogusto sospetto ma in modo tale che nelle analisi non vi sia traccia di zucchero, che con il peperoncino non c’entra niente. Gusto di cosa? Mistero.
Ma, da commercianti furbi che vogliono evitare fastidi, abbiamo fatto effettuare da un laboratorio accreditato dal COFRAC (Comitato francese per l’accreditamento) un’analisi di routine. Beninteso, tutti i parametri analizzati risultano essere perfettamente conformi. Conserviamo gelosamente quell’analisi, per poter dimostrare ai guastafeste che controlliamo coscienziosamente i nostri prodotti e che ci preoccupiamo della qualità, della sicurezza, eccetera eccetera.
Una volta che siamo coperti, nulla ci impedisce di mettere il nostro peperoncino sul mercato, cosa che ci affrettiamo a fare. Il prezzo è talmente competitivo che conquistiamo facilmente fette di mercato e i volumi trattati non tardano a diventare cospicui. Speculiamo su stock ingenti. Le settimane e i mesi passano, e vendiamo decine di container.
Questa storia meravigliosa avrebbe potuto non finire mai se, due anni dopo, un concorrente dalla mente malata e per nulla furbo non avesse fatto delle analisi approfondite per identificare il colorante che il fornitore aveva aggiunto. E finalmente ha smascherato il colpevole: un colorante tra i più simpatici e chimici del tipo Sudan rosso, solitamente utilizzato per dare una bella tinta rossa alle vernici e, per esempio, quel grazioso colore caratteristico del diesel. Decisamente non alimentare ma probabilmente non pericoloso nelle dosi utilizzate nel nostro peperoncino… anche se non posso affermarlo con certezza.
La DGCCRF (Direzione generale della concorrenza, del consumo e della repressione delle frodi) ne è stata informata e tutto il nostro stock di bel peperoncino è finito sotto sequestro. Abbiamo tentato in tutti i modi di giustificarci, di esibire i certificati d’analisi, ma non ne hanno voluto sapere e ci hanno costretti a distruggere tutta la merce, svariate decine di tonnellate che non chiedevano niente a nessuno. Tutto a spese nostre. Il che ci è costato quasi tutto il margine che avevamo fatto con quel prodotto. Errore!
Far distruggere quel bel peperoncino che i supermercati di ogni marchio si contendevano, e che eravamo riusciti a vendere persino a una delle più prestigiose gastronomie di lusso parigine, conosciuta in tutto il mondo, rappresentava un esempio perfetto di sciupio.
Tuttavia dobbiamo fare mea culpa. Ci siamo lasciati accecare dalla nostra vanità, gonfi di baldanza e di supponenza da scoppiare. Sapendo perfettamente che il peperoncino era adulterato, e che il rischio che la cosa presto o tardi venisse a galla era reale, non avremmo mai dovuto prenderne una quantità così grande.
Qualcuno penserà che avremmo dovuto cercare quello che non andava nel prodotto prima che i nostri concorrenti lo scoprissero, ma bisogna anche capire bene che noi non volevamo assolutamente conoscere la natura della truffa, perché saperlo ci avrebbe resi complici, mentre nell’“ignoranza totale” eravamo vittime. Il che, dal punto di vista penale, cambia le cose.
Una volta prosciugata la nostra migliore fonte di peperoncino, mi sono messo in cerca di una soluzione. L’ho trovata in Sudafrica. Bel paese. Pieno di gente furba.
Un industriale locale mi ha proposto un bel peperoncino, dal bel colore, piccante ma non troppo, e soprattutto economico. Stavolta abbiamo proceduto ad analisi approfondite sui coloranti. Eh sì, si può spiegare agli ispettori antifrodi che ci si è fatti fregare una volta, ma persino loro fiuterebbero qualcosa di losco se la faccenda si ripetesse.
Questo nuovo peperoncino non conteneva coloranti artificiali, ma era troppo a buon mercato, quindi necessariamente non troppo pulito. Ma di fatto le analisi erano buone. Perciò tutto ok, siamo ripartiti alla garibaldina. Un container, due container… andava tutto a meraviglia. Clienti contenti, azionisti in estasi, il mio capo al settimo cielo. E poi ci siamo resi conto che le analisi erano… troppo buone.
Può sembrare paradossale, ma alcuni parametri non possono essere “troppo buoni”, anche un ispettore antifrode ci troverebbe da ridire. Per esempio, un formaggio deve contenere delle muffe vive. Se non ce n’è la minima traccia, la cosa è sospetta. Nel nostro caso, il peperoncino era quasi sterile. Non il minimo batterio, la minima muffa, né alcun altro microbo vivente, il che è possibile tramite un solo sistema di cui nessuno vuole sentir parlare: la ionizzazione. Per essere precisi, non è vietato, ma un prodotto irradiato deve essere dichiarato sulla confezione e naturalmente è invendibile, perché i consumatori non si fidano. Chissà perché nessuno vuole consumare prodotti irradiati. Eppure, la ionizzazione è il metodo di decontaminazione più efficace. Altri vantaggi: costa molto meno delle altre tecniche che permettono di trattare le spezie, non altera il colore come fa il vapore acqueo, che è la tecnica classica, e non lascia residui come i trattamenti chimici al bromuro di metile o la fosfina (un idruro di fosforo).
«Allora, capo, cosa facciamo?»
«Come, cosa facciamo? Cosa vuoi fare?»
«Be’, questo peperoncino è ionizzato.»
«Ne sei sicuro? Hai delle prove?»
«È evidente, non c’è bisogno di prove, il peperoncino è sterile. È semplicemente impossibile, altrimenti.»
«Ascolta, non abbiamo prove, la tua è solo una supposizione e non si può accusare così un fornitore che magari è in buona fede.»
«Capo…»
«Cazzo, siamo gli unici a saperlo. Non devi fare altro che mischiarlo con del peperoncino cinese non molto pulito microbiologicamente, e le analisi finali saranno meno buone. Se ci fanno delle domande, diremo che li mischiamo per rendere omogeneo il gusto o il colore, questo tipo di spiegazione fumosa funziona sempre.»
«Ok.»
Mi dicevo che non sarei mai stato degno neanche di allacciare le scarpe al mio capo. Lui aveva talmente tanto senso pratico, era così logico, così sicuro di sé; era il MacGyver o il JR delle spezie. Anche lì non abbiamo avuto fortuna. Il nostro furbo industriale sudafricano ha subito due anni consecutivi di siccità e, senza peperoncino da vendere, ha dovuto chiudere bottega. Ma rassicuratevi, per il peperoncino come per il resto, i partner furbi non mancano.
Continua --- >>> Capitolo 18
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** Noi Siamo e Saremo --->> Quello che Mangiamo ** con le Scelte che Facciamo.
EUREKA
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Capitolo 18
L’invasione delle coccinelle
Un giorno i nostri cari azionisti hanno deciso, vai a sapere perché, di comprare uno stabilimento di disidratazione nella Francia dell’ovest. Be’, anche se dico che non conosco il motivo, ho comunque un’ideuzza in proposito, visto che “comprare” non è il termine opportuno da usare in questa circostanza. Perché, in realtà, il rilevamento di questa società sull’orlo del fallimento è stato pagato solo con delle promesse. Promesse di salvaguardia dei posti di lavoro, promesse di realizzare nuovi investimenti e promesse di risarcimento di tutti i debiti accumulati dalle gestioni precedenti. Il tutto, beninteso, condizionato ai buoni risultati futuri che, era pressoché certo, sarebbero arrivati molto in fretta. Per farla breve: chiacchiere. Per l’acquisto, quindi, non abbiamo pagato niente: il che, a priori, sembrava un ottimo affare.
Ma, per vostra informazione, sappiate che rilevare un azienda non è mai una cosa facile, e che diventa un’operazione decisamente rischiosa quando quest’ultima è moribonda. Un’azienda in modalità sopravvivenza non ha più i mezzi per investire, per mantenere correttamente in buono stato il suo materiale, per pagare normalmente i dipendenti, i fornitori…
Quindi, del tutto logicamente, ci siamo ritrovati proprietari di un mezzo di produzione superato, guasto per la metà del tempo e gestito da un personale completamente demoralizzato. Del resto, erano rimasti lì soltanto quelli che non erano riusciti ad abbandonare la nave prima del naufragio, ossia la peggiore banda di incompetenti che mi sia mai capitato di incontrare in tutta la mia vita (spiacente per quelli che potranno riconoscersi, niente di personale).
Per chi non lo sapesse, un’unità di disidratazione è semplicemente una fabbrica in cui si mette in atto un processo che toglie l’acqua contenuta nei vegetali (verdura e frutta destinate agli esseri umani, erba medica e vari altri tipi di foraggio per il bestiame). Questa tecnica permette semplicemente, e naturalmente, di conservare questi prodotti deperibili. Enormi forni producono un’aria molto calda e molto secca, che viene soffiata sul prodotto e così lo essicca. È una cosa banalissima, una specie di grosso asciugacapelli, in pratica.
Ci può essere qualche variazione a seconda della tipologia, ma in media un vegetale disidratato pesa circa il 10% del suo peso iniziale. Quindi, per esempio, vi servono circa dieci chili di porri freschi per ottenere un chilo di fiocchi di porro disidratato. Questi vegetali secchi si ritrovano poi in una moltitudine di prodotti finiti come le minestre in busta, i misti di piante aromatiche e di spezie in boccette o bustine, i formaggi freschi al prezzemolo, all’aglio o all’erba cipollina, le salse o le preparazioni di carne…
Siccome avevo una buona esperienza nel campo del commercio, dall’oggi al domani mi sono ritrovato con l’incarico di vendere la produzione di questa fabbrica all’export. I miei mercati erano essenzialmente gli Stati Uniti per il prezzemolo, l’erba cipollina e il basilico, e la Germania per i medesimi prodotti più qualche altro, come i porri, molto apprezzati al di là del Reno.
I nostri obiettivi erano come sempre ambiziosi e, grazie a una tecnica di vendita sofisticata tra le più innovative, che gli esperti chiamano “prezzi stracciati”, in due settimane avevo venduto tutto quello che avremmo potuto teoricamente produrre in un anno. Secondo i nostri criteri, un buon lavoro.
Ahimè, con il nostro gruppo di incapaci, le nostre macchine obsolete e ferme per la maggior parte del tempo, eravamo sempre in carenza di prodotti e i nostri clienti si lamentavano per i ritardi nelle consegne. E fosse stato solo questo! Perché quella situazione benedetta, in cui dovevo gestire solo problemi di tempi e ritardi, non durò a lungo. Quando notai che le nostre scorte aumentavano a una velocità vertiginosa, mentre noi ai clienti consegnavamo la merce con il contagocce, alzai il telefono per chiedere spiegazioni al colonnello meno apatico dell’esercito messicano che mandava avanti la fabbrica.
«Pronto, Pedro? (Il nome è stato cambiato, perché sono un ragazzo gentile) Ho sempre più ritardi nelle consegne, la cosa sta diventando grave, perderemo dei clienti e ci beccheremo le penali. Dobbiamo fare qualcosa, e in fretta!»
«Abbiamo dei problemi alle macchine, stiamo facendo tutto il possibile ma non possiamo produrre più in fretta.»
«Sì, lo so, ma vedo sui miei elenchi che le scorte aumentano e non capisco perché. Bisogna mandare questi prodotti al più presto.»
«No.»
«Come, no? Perché no, Pedro?»
«Questi lotti sono ancora bloccati… ci vuole tempo… i controlli della qualità… le analisi…»
«Ma io vedo sulla mia lista che ci sono dei lotti che sono stati prodotti già da più di un mese!»
«Sì, ma finché la qualità non dà il via libera, i lotti restano bloccati. Siamo certificati, non facciamo le cose a vanvera, qui.»
«Pedro, conosco molto bene le procedure qualità e so che ci vuole meno di una settimana per fare il controllo completo. O c’è un problema con questi lotti, o avrebbero dovuto essere tutti sbloccati da molto tempo.»
«…»
«Pronto, Pedro?»
«Sì.»
«C’è un problema con questi lotti oppure no?»
«No, no… vanno bene, nessun problema.»
«Allora dai una strigliata a quelli della qualità perché me li sblocchino subito e poi li consegni ai nostri clienti, ok?»
«Ok.»
Avrei dovuto sospettare che mi stesse raccontando delle balle, dal suo tono di voce e dai suoi silenzi. Infatti avevamo appena consegnato uno dei lotti in questione a un cliente tedesco, un bavarese solita mente affabile, quando quest’ultimo mi telefonò, pazzo furioso, minacciando di trascinarci in tribunale e, cosa ancora più grave, di non pagarci!
Parlavamo in inglese, perché le poche parole di tedesco che capisco, tratte da un capolavoro come Tre uomini in fuga sfortunatamente sono di scarsa utilità negli affari. Dunque il mio interlocutore mi minacciava nella lingua di Shakespeare e nello stesso tempo, in mancanza di un vocabolario padroneggiato a sufficienza, mi insultava in quella di Goethe.
Si rifiutò di dirmi cosa non andava, facendomi notare che non potevo avergli consegnato «such a Scheisse» (traduzione letterale: “una merda del genere”) se non intenzionalmente, per imbrogliarlo. Dopo avermi fissato un ultimatum di due giorni, durante i quali dovevo recuperare tutta la mia Scheisse e consegnargli in cambio dei lotti conformi, mi riattaccò in faccia lasciandomi mezzo sordo da un orecchio.
Quella sera stessa presi l’aereo con il mio elenco sottobraccio, e l’indomani mattina alle otto ero già nel magazzino della fabbrica di disidratazione, accompagnato dal mio futuro ex amico Pedro. Che sfoggiava una faccia da giornata no, proprio come me.
Per più di mille metri quadrati e lungo cinque ripiani di scaffalature metalliche (che nell’industria si chiamano “rack di stoccaggio”), centinaia di pallet alti più di due metri pieni di scatole di cartone o di grossi sacchi di carta da imballaggio a triplo spessore giacevano perfettamente allineati, tranquilli… mentre i miei clienti aspettavano quei prodotti con la lingua fuori!
«Bene, Pedro, esamineremo una scatola presa a caso, del primo e dell’ultimo pallet di tutti i lotti che sono in magazzino da più di dieci giorni.»
«Ci prenderà tutta la giornata, e io ho anche altro da fare» grugnì lui. «Sarebbe meglio prendere un pallet dal centro, a caso.»
«No, facciamo come ho detto. Ti dirò i numeri dei pallet che voglio vedere, tu li tirerai fuori dal rack, e sceglierò io stesso uno scatolone su ciascuno di questi pallet, non su altri.»
Non ero nato ieri e, se insistevo per vedere il primo pallet, era perché sapevo perfettamente che, quando si controlla male il processo, è all’inizio che il prodotto corre il rischio maggiore di essere diseguale e difettoso. È quando si lancia una produzione che si regolano le macchine, si procede per tentativi, la merce prodotta è irregolare e i parametri non sono ancora tutti stabilizzati. Anche l’ultimo pallet poteva essere interessante, perché alcuni processi sono delicati da stoppare senza alterare il prodotto. Con file di forni e di essiccatoi industriali di più di cinquanta metri, non basta premere un bottone perché tutto si fermi all’istante.
Finalmente sarei riuscito a capire, a vedere. E, per quel che riguarda il vedere, sono stato servito a dovere, i miei occhi ne hanno avuto d’avanzo. In una sola giornata, ho avuto l’opportunità di vedere tutti i tipi di difetto che era possibile produrre nella gloriosa industria della disidratazione. E vi dirò che, da questo punto di vista, fin dalla primissima scatola si era mirato molto in alto.
Logicamente, avevo voluto iniziare la mia ispezione dalla cosa più urgente, la partita di porri tagliati in fiocchi di un centimetro quadrato che il mio cliente bavarese si rifiutava di pagare. Su un lotto di 30 tonnellate, il mio cliente ne aveva ricevute 10, quindi da noi in magazzino ne restavano 20 che dovevano essere della medesima qualità.
Pedro mi tese una scatola di cartone che pesava esattamente 10 chili netti, e come la aprii… era vuota! O meglio, non proprio vuota vuota… C’era effettivamente qualcosa, sul fondo, e la scatola era pesante…
La capovolsi per svuotarla e una specie di spessa focaccia pesante una decina di chili, delle stesse identiche dimensioni della scatola, cadde sul cemento con un rumore sordo. Fissai stupefatto quel coso.
«Cos’è questa roba?»
«Porro» rispose Pedro, per nulla stupito, come se tutto quanto fosse normalissimo.
«Non prendermi per un idiota» dissi, più sorpreso che arrabbiato.
Mi chinai sulla focaccia e cominciai un esame più approfondito. Era vagamente verdastra, compatta ma nello stesso tempo elastica. Una nuova materia?
Nell’amalgama, si riuscivano a indovinare senza sforzo dei pezzi da un centimetro che sembravano piccoli francobolli, ma erano tutti appiccicati gli uni agli altri a formare quella strana massa. Alcuni pezzi nero-bruni sembravano completamente bruciati, mentre altri, verde scuro, erano ancora umidi, e il tutto era agglomerato da filamenti bianchi di muffe di grande effetto.
«Com’è possibile produrre un porro umido e bruciato nello stesso tempo?»
«È normale, è un inizio di produzione, stavamo regolando la temperatura del forno e il flusso dell’aria. L’aria troppo calda ha un po’ tostato il prodotto, ma non ha fatto in tempo a essiccarlo perfettamente.»
«Pedro, come puoi dire che è normale? È completamente andato, buono per la pattumiera. I miei clienti se ne sbattono se l’aria è troppo calda, vogliono un porro che sia commestibile. Apriamo un’altra scatola presa da un altro pallet dello stesso lotto.»
Il prodotto nella seconda scatola era meno compresso. Il porro sembrava ben asciutto e di miglior qualità, a parte il fatto che il colore di alcuni pezzi era un po’ spento e virava al bruno. Probabilmente un’aria ancora un po’ troppo calda che avrà abbrustolito il… no… strano, il colore bruno sembra essere in realtà una specie di pellicola, una polvere che si può togliere… ma è terra!
«Il prodotto è pieno di terra! Pedro, come cazzo siete riusciti a fare una cosa del genere?»
«La colpa è dei contadini, i campi erano fangosi e hanno consegnato degli stock di porri freschi tutti sporchi.»
«E allora? Che la verdura arrivi sporca di terra può succedere. Perché non li avete lavati, prima di essiccarli?»
«Ma rifletti! Se si lava, si bagna il prodotto. E più il prodotto è umido, più è difficile da essiccare.»
Ero a terra (senza giochi di parole).
«Quindi, siccome è più difficile da essiccare, producete del cibo pieno di terra! E vi aspettate che i clienti non se ne accorgano e non dicano niente?»
Il seguito dell’esame del lotto di porri mi tolse ogni speranza di trovare anche solo un pallet di qualità accettabile. Le 20 tonnellate in magazzino, e certamente anche le 10 del mio cliente, erano semplicemente invendibili, almeno così com’erano. E rendetevi conto che, per ottenere quelle 30 tonnellate di porri essiccati, era stato necessario disidratare una quantità dieci volte maggiore di porri freschi, ossia 300 tonnellate!
«Ok, Pedro, i porri li ho visti. Ora passiamo al prezzemolo riccio. A meno che tu non mi dica subito qual è il problema, così guadagniamo tempo…»
«Il prezzemolo riccio va bene.»
Devo dire che ci avevo creduto. Mi ero detto che non poteva essere così stupido da mentirmi mentre stavo per procedere al controllo. Eppure…
«Ok, allora guardiamo la prima scatola.»
All’inizio mi rassicurai. Il prezzemolo riccio disidratato che smuovevo dolcemente con una mano, tagliato in fiocchi da 6 a 8 millimetri, non era né umido né bruciato e non vedevo tracce di terra. Il colore era giusto, un bel verde, e il taglio netto e omogeneo dalla cima della scatola al… ah, no, sul fondo è diverso… dei gambi… Cazzo, è pieno di gambi!
«Ma Pedro, perché mi dici che va bene se il fondo della scatola è pieno di gambi?»
«È normale che ci siano dei gambi, è prezzemolo, non si può avere solo la foglia.»
«Ma insomma, non mi dire che è normale, altrimenti la qualità non avrebbe bloccato le scatole. Superiamo largamente la percentuale di gambi autorizzata dal capitolato d’appalto. Sai bene qual è il problema, allora perché aspettare che sia io a scoprirlo o, peggio ancora, che siano i clienti ad accorgersene?»
«…»
Stavolta Pedro mi teneva chiaramente il broncio, dalla sua bocca non usciva più una parola.
Bisogna capire che, una volta confezionati, i prodotti tagliati o in polvere tendono a separarsi in base alla loro densità. Così, le particelle più pesanti, come i sassolini o, nel caso del nostro prezzemolo, i gambi, finiscono per la maggior parte sul fondo delle scatole.
«Va be’, ok, allora passiamo all’erba cipollina. Suppongo che mi dirai di nuovo che il lotto è conforme e che è la qualità a sbagliarsi.»
«…»
«Bene, vediamo questa… A prima vista sembra a posto, almeno in superficie… Il colore è ok, l’odore va bene… Niente terra… Niente di bruciato…
Vediamo in mezzo alla scatola… Ah… è tagliata maluccio, dipende dai pezzi, ma forse può essere ancora accettabile… E in fondo… è tutta tagliuzzata e chiaramente spappolata… con tracce di muffa!»
«…»
«Bene, l’erba cipollina è fottuta. Finiamo col basilico. Vuoi lasciarmi il piacere della scoperta?»
«…»
«Be’, mi sembra che questo basilico vada bene. Un bel colore, odore fantastico, taglio ok. Ed è regolare dalla cima della scatola fino in fondo. Perché è bloccato? Un difetto che non si vede? Hanno trovato pesticidi o metalli pesanti?»
«No, quanto a pesticidi è pulitissimo…»
To’, ha ricominciato a parlarmi.
«Allora cosa c’è che non va in questo lotto? Perché è ancora bloccato? Io non… Guarda, cos’è quel puntino rosso? … Ah, solo una piccola coccinella smarrita, tutta rinsecchita, poverina… ma… Ah, eccone un’altra… e un’altra… e un’altra… e un’altra ancora… Ok, va bene, ho capito.»
Al termine dell’ispezione, la totalità dei lotti bloccati dal servizio qualità che dormivano nei nostri magazzini da settimane, ossia più di 100 tonnellate di prodotto, si rivelò completamente invendibile. Il tutto rappresentava più di 1.000 tonnellate di prodotti freschi, e una somma di denaro considerevole.
Pedro, che da quel momento tutti noi soprannominammo “lo psicopatico”, è stato cacciato via in meno di una settimana. Stando alle ultime notizie, adesso imperversa da un produttore di minestre di verdura di cui non tengo certo a gustare la produzione, soprattutto la serie “porro, patata, coccinella”.
L’unica soluzione che ci restava per non buttare ogni cosa nell’immondizia era di tritare finemente tutto ciò che si poteva. Di atomizzare, per far scomparire le graziose coccinelle, i gambi di prezzemolo, il porro ammuffito e terroso e l’erba cipollina a brandelli. Sfortunatamente, come adesso sapete anche voi, le polveri valgono molto meno dei prodotti interi o in pezzi, perché vengono fabbricate con prodotti di seconda scelta e sottoprodotti.
Queste polveri venivano quindi vendute a un prezzo che, in conclusione, risultava molto inferiore rispetto al costo di produzione. Ciò limitava le nostre perdite, certo, ma nell’insieme con quella fabbrica ci rimettevamo comunque dei soldi. E non pochi, perché lotti non conformi continuavano a essere prodotti ogni giorno mentre, nello stesso tempo, eravamo incapaci di consegnare ai nostri clienti dei prodotti corretti.
Amico consumatore, non posso dunque che incoraggiarti una volta di più a evitare i prodotti tritati e polverizzati. Non c’è niente di più facile che farsi il minestrone da soli e, credimi, è molto più sano.
Il mio cliente bavarese mi ha rimandato la nostra Scheisse, e a nostre spese, il tutto accompagnato da una mostruosa fattura piena zeppa di penali. In seguito si è definitivamente rifiutato di parlare ancora con me, sia in inglese sia in tedesco.
Con quell’impianto non siamo mai riusciti a ottenere lotti di buona qualità a un costo di produzione ragionevole. Dopo aver perso dei milioni, abbiamo finalmente gettato la spugna e rivenduto la fabbrica per un soldo a un industriale poco furbo convinto di concludere un ottimo affare. Tuttavia, ha finito per chiuderla nel giro di qualche mese, dopo averci disidratato tutta la sua liquidità.
Continua --->>> Capitolo 19
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Capitolo 19
Erba da sballo… per la pizza
«Cazzo, abbiamo un problema con l’origano, siamo troppo cari, perdiamo mercati. Ci hanno buttato fuori dalla gara d’appalto di PizzeVarie a vantaggio di SpezieCorp.»
La cosa che il mio boss odia di più al mondo è che i concorrenti si dimostrino più furbi di noi e ci rubino i nostri clienti.
«Non capisco, capo,» mi difesi «siamo sul mercato. Il nostro prodotto è di buona qualità, siamo grandi compratori, e ho dei buoni prezzi. Ne ho appena fatti entrare due container.»
«Dobbiamo riuscire a capire cosa sta succedendo o perderemo altri clienti. Il committente di PizzeVarie è un amico e mi ha promesso un campione del prodotto di SpezieCorp. Andrai in Turchia con quello e troverai una soluzione per farci tornare competitivi.»
È così che, qualche giorno dopo, mi sono ritrovato a Smirne, a svolgere un’inchiesta negli impianti per il trattamento dell’origano – kekik in turco –, con il compito di trovare i fornitori più furbi sulla piazza.
Bisogna capire bene la posta in gioco. L’origano non è un prodotto qualsiasi, è una delle erbe aromatiche più consumate. È quella che regala il loro sapore caratteristico alle pizze e a numerosi piatti italiani e mediterranei. Come potete immaginare, i volumi sono decisamente considerevoli.
Certo, si trova ancora un po’ di origano selvatico di ottima qualità in Albania, ma oggi il principale paese produttore è la Turchia, perché lo coltiva su vasta scala. È meno buono, sicuramente, ma anche molto meno caro. Ed è a Smirne che avviene tutto: lì ci sono gli stabilimenti e i commercianti all’ingrosso più importanti.
L’acquirente di PizzeVarie era stato di parola. Mi portavo dietro un sacchetto di plastica con dentro circa 200 grammi di origano essiccato che arrivava direttamente dal nostro concorrente troppo furbo. Avevo previsto di far vedere quel campione a tutti i miei contatti per saperne un po’ di più, e mi sentivo nei panni di un trafficante che cerca di spacciare la sua droga. «Hai qualcosa per me?»
Esaminando il mio campione, Hamdi, il primo fornitore che ho incontrato, ha subito sorriso.
«Sommacco!» ha esclamato.
«Scusa?»
«Dovevi dirmelo subito che cercavi una miscela di origano e sommacco, posso farti la composizione che vuoi in base al prezzo che desideri pagare.»
«Cos’è il sommacco?»
«Beviamoci un tè, e intanto il mio laboratorio ti preparerà dei campioni che potrai portar via. Vedendo, capirai meglio.»
Abbiamo sorseggiato tranquillamente un tè nero e molto zuccherato, accompagnato da albicocche secche, fichi e biscotti alle mandorle e pistacchi. Molto buono. I commerciali turchi sanno ricevere, mica come i francesi, piuttosto tirchi in generale e di cui un’infima minoranza vi servirà nella migliore delle ipotesi un caffè in un bicchierino di plastica.
Dopo qualche minuto passato a lamentarci del tempo e dei politici e a commentare gli ultimi risultati della Champions League, un laboratorista in camice bianco è venuto a interromperci.
«Bene, è pronto, seguimi» mi ha invitato Hamdi.
Preceduti dal tecnico, abbiamo raggiunto un vasto locale pieno di attrezzature, il laboratorio. Su un grande piano d’appoggio bianco piastrellato c’erano sei mucchietti color verde un po’ sbiadito di quello che sembrava essere origano.
«Il mucchio più a sinistra è origano puro» mi ha detto Hamdi indicandolo col dito. «È quello che mi stai comprando attualmente. Una qualità molto buona della regione egea e dell’Anatolia. Quello un po’ più a destra ne contiene solo l’80%. Quello dopo il 60%, poi il 40%, il 20%, e l’ultimo non ne contiene più del tutto. L’origano che abbiamo tolto è stato sostituito con il sommacco, una pianta locale.»
Ho guardato i piccoli mucchi verdi. Mi sembravano tutti identici.
«Non vedo nessuna differenza.»
«È perché non guardi bene e non sai cosa cercare. Fa’ come me.»
Ha preso un pizzico di prodotto dal mucchio senza origano e ne ha sfregato le foglie tra le dita, schiacciandole prima di annusarle.
Io l’ho imitato.
«Allora?» mi ha chiesto.
«Non profuma per niente, o quasi.»
«Esatto, il sommacco non ha oli essenziali come l’origano. Non ha odore e neanche sapore. È un’erba qualsiasi. Non pericolosa, ma neanche profumata.»
«A parte questo dettaglio, è molto simile, Hamdi.»
«Sì, le foglie di sommacco essiccate e tagliate assomigliano molto a quelle dell’origano, è per questo che viene spesso mischiato all’origano per abbassare il prezzo. Ma, se guardi bene, nell’origano coltivato vedrai delle palline che nel sommacco non ci sono.»
«Quindi il campione che ti ho fatto vedere contiene questa pianta, il sommacco?»
«Sì, senza ombra di dubbio. Intorno al 40%, direi.»
«Lo si dovrebbe capire con più precisione misurando l’olio essenziale, no?»
«È molto difficile, perché la quantità di olio essenziale dell’origano cambia in base alla varietà, al clima, alla data di raccolta, alle condizioni di stoccaggio, insomma a numerosi parametri. In più, l’olio essenziale col tempo svanisce, evapora. Perciò puoi avere un origano vecchio di due o tre anni, perfettamente puro, che non avrà quasi più olio e quindi quasi nessun profumo.»
Era chiaro che avevo appena scoperto il trucco utilizzato dal nostro concorrente per essere più economico di noi.
«Ok, Hamdi, e quanto costa questo sommacco?»
«Il sommacco puro, senza olio essenziale, fa 2 euro al chilo.»
«Mentre l’origano di buona qualità oggi vale più di 5 euro, giusto?»
«Sì, tu fai la miscela che vuoi per ottenere un prodotto tra i 2 e i 5 euro. Ma non bisogna far scendere troppo la percentuale di origano, altrimenti non avrai più abbastanza sapore.»
Sono tornato in Francia con i sei campioni nella valigia. Io e il mio capo ci siamo divertiti a fare i nostri miscugli personali, più precisi, per adattarci meglio alle esigenze di prezzo e di qualità di ciascuno dei nostri clienti. Una volta stabilita la composizione, non mi restava che chiamare Hamdi per fare il mio ordine. Naturalmente, la parola “sommacco” era severamente proibita e sostituita da kekik. Ci si intendeva lo stesso, e in fondo non si sa mai:
«Buongiorno, Hamdi, mi servono due container di origano. Questa volta iniziamo con 55/45… Sì, 55% di origano varietà classica e 45% varietà kekik…»
Sfortunatamente, il nostro concorrente, vedendoci di nuovo competitivi, ha trovato un altro modo per abbassare di più i suoi prezzi. Allora abbiamo subito mandato un campione a Hamdi per capire come facesse.
«Pronto, sono Hamdi.»
«Hai esaminato il nuovo campione di origano di SpezieCorp?»
«Sì, contiene una buona quantità di sommacco… e delle foglie giovani di ulivo tagliate.»
«Delle foglie di ulivo! E quanto costano, Hamdi?»
«Le posso avere per meno di 1 euro al chilo…»
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Capitolo 20
Lo zafferano, regina delle spezie
Nella famiglia di mia moglie, nessuno lavora nel settore alimentare. Quindi, come la stragrande maggioranza dei consumatori, sono le vittime perfette. Il cugino di mia moglie, di ritorno dalle vacanze in Marocco, ci ha tenuto a mostrarmi a tutti i costi, oltre a certe orribili fotografie in cui lo si vede appollaiato su un dromedario male in arnese, una scatolina di legno che custodiva come un tesoro.
«Tu che sei un esperto di spezie, questo ti interesserà.»
Aprì dunque la scatola con cautela e con un gran sorriso sulle labbra.
«Zafferano puro del Marocco! L’ho comprato da un piccolo produttore nel suq di Marrakesh. Lui e la sua famiglia lavorano ai piedi dell’Atlante.»
«E l’hai pagato tanto, il tuo zafferano?»
«Stai scherzando? Ho fatto un affare, 50 euro, compresa questa graziosa scatoletta di legno. Ma ho contrattato come un pazzo, all’inizio ne voleva 200.»
«Sicuramente per lo zafferano non è affatto caro. Per il fiore di cartamo, invece…»
«Eh?»
«Il tuo “zafferano del Marocco” è fiore di cartamo essiccato… Per 50 euro posso fartene avere svariati chili.»
Lo zafferano merita senza alcun dubbio un capitolo a sé. È il prodotto che nella mia carriera ho visto contraffare più spesso. E, credetemi, ne ho viste tante. D’altronde è perfettamente logico, perché è la spezia più cara al mondo. Il prezzo di vendita al consumatore può superare i 6.000 euro al chilo per lo zafferano iraniano (un’ottima origine), e persino i 40.000 euro al chilo per quello francese. È facile capire come tutto ciò possa suscitare una certa bramosia.
Prezzi così alti si spiegano facilmente, perché ci vogliono non meno di 150.000 fiori per ottenere appena un chilo del prezioso stigma. Provate a immaginare: 150.000 fiori da piantare e da raccogliere, 150.000 mazzi di stimmi da togliere delicatamente dal fiore, essiccare e confezionare. E tutto questo va fatto un fiore per volta, a mano. Scusate se è poco.
Per quanto riguarda lo zafferano venduto intero, sotto forma di filamenti, che si trova di solito nei mercati all’aperto, in Provenza o a Marrakesh, la truffa – grossolana – consiste nel far passare per zafferano i petali di cartamo o di calendula. L’aspetto può essere vagamente simile, il colore ocra che tende all’arancione anche, ma a livello di gusto e di potere colorante non valgono niente in confronto allo zafferano vero, il Crocus sativus.
Quello che i turisti come il cugino di mia moglie portano a casa a piene mani dalle loro vacanze a Marrakesh, pensando di aver fatto l’affare del secolo, è molto semplicemente fiore di cartamo venduto come “zafferano del Marocco”. A quelli di voi che passano le vacanze in Tunisia, in Algeria, in Egitto o in Turchia, lascio il compito di modificare i nomi dei luoghi.
Il cartamo non è pericoloso ed è da sempre utilizzato in cucina. Potete tranquillamente comprarlo, soltanto state attenti a pagarlo il giusto prezzo. Distinguerlo dallo zafferano vero a fili interi non è così difficile. Date un’occhiata su internet per vedere che aspetto ha.
Una truffa frequente e più elaborata consiste nel colorare un filamento – che può essere di seta, di cotone, di barba di granturco o di un’altra fibra vegetale – con curcuma e/o altro colorante artificiale. Un acquirente esperto non ci cascherà, ma alcuni falsari sono molto dotati e possono fregare un novellino. Per non parlare del consumatore medio.
Una variante più sofisticata consiste nel colorare il bianco di zafferano. I filamenti di zafferano, infatti, sono naturalmente bianchi alla base, poi giallo chiaro, giallo aranciato e infine rossi all’estremità. Solo la parte rossa dei filamenti, ricca di pigmenti e aromi, può essere chiamata “zafferano”. Il bianco di zafferano fa tecnicamente parte della pianta di zafferano ma, non avendone né il colore né il gusto, non ha diritto a quell’appellativo. Se la cosa è fatta bene si può rimanere ingannati, perché niente assomiglia a un filamento di zafferano… più di un altro filamento di zafferano.
Infine, ci sono gli artisti, i maghi della truffa. A me, professionista esperto di spezie, è capitato di farmi fregare alla grande e di scoprire certe frodi solo in seguito a una serie di analisi approfondite, e persino molto tempo dopo che lo zafferano era stato venduto e consumato. I frodatori più furbi mischiano falso zafferano con zafferano vero, usano coloranti artificiali che, se analizzati, si comportano come i coloranti naturali dello zafferano. Questo rende l’inganno più difficile da smascherare, perché le analisi di routine non rileveranno niente di anormale.
A meno che non compriate una marca conosciuta, vi consiglio di evitare lo zafferano in polvere. Un compratore professionista di zafferano compra solo filamenti, unicamente perché le frodi sono più facili da smascherare.
È con le polveri che si verificano le frodi più estreme. Alcuni fornitori sono senza scrupoli e completamente pazzi. Non esitano a mischiare ingredienti come mattone polverizzato, coloranti cancerogeni vietati, sostanze minerali o metalliche ecc., creando miscugli di polveri impossibili da identificare.
L’immaginazione dei truffatori è illimitata e quando si vuol comprare dello zafferano ci si trova a fronteggiare tutto questo. Eccovi avvisati.
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Ci prendiamo cura delle vostre cipolle
Un lunedì mattina, vidi piombare su di me il mio boss tutto raggiante. Durante il fine settimana aveva cucinato con sua moglie e aveva avuto una rivelazione. No, non divorziava, non aveva nulla a che vedere con sua moglie, ma con un ingrediente.
«Guarda qui» mi disse tutto eccitato mettendomi sotto gli occhi due bulbi di cipolla.
«Cipolle? Avrei preferito dei croissant.»
Conoscevo bene il mercato delle cipolle perché ne trattavo grossi volumi, e proprio non capivo dove volesse arrivare. Il nostro business per quanto riguardava cipolle e scalogni consisteva nell’acquistarli freschi in Francia, Olanda, Germania e Polonia, e di mandarli su camion nelle fabbriche di mondatura, in Polonia. Sbucciare delle cipolle è un lavoro che richiede moltissima mano d’opera, perché per una resa perfetta non può essere automatizzato. Sappiate dunque che la maggior parte delle cipolle e degli scalogni coltivati in Europa vengono inviati in Polonia per esservi sbucciati a mano prima di tornare nei loro paesi d’origine. Il costo del trasporto, aggiunto al costo della trasformazione realizzata in Polonia, è meno elevato rispetto a quello della stessa prestazione lavorativa eseguita direttamente nei luoghi di produzione. Non è molto ecologico, ma è così. Tutte le cipolle che ritroviamo nei nostri piatti pronti industriali (salse, pizze, insalate, minestre), migliaia di tonnellate di bulbi, vengono sbucciate da manine dell’Est.
«Guarda meglio» insistette.
Esaminai attentamente le cipolle, i cui vapori mi pizzicavano gli occhi, mentre l’odore faceva scempio del mio caffè mattutino…
«Be’, il bulbo più piccolo, un po’ allungato, è uno scalogno, e l’altro una cipolla rosa di tipo lungo, un’échalion, volgarmente chiamata “scalogno coscia di pollo”.
«Esatto!» rispose con un largo sorriso. «Uno scalogno di Bretagna, di Saint-Pol-de-Léon, che costa un occhio della testa, e una cipolla rosa polacca, che costa tre volte di meno.»
«Sì, conosco il prezzo, ma l’échalion è una cipolla, non un vero scalogno. Se lo scalogno è più caro, è perché le rese sono minori, perché è più difficile da coltivare, e soprattutto perché il gusto è molto migliore.»
«E se si potesse vendere la cipolla al prezzo dello scalogno?» insistette.
«Sarebbe magnifico, ma nessuno scambierà una cipolla per uno scalogno» ribattei con un’alzata di spalle. «Già visivamente sono diversi. L’échalion è più grande, il colore non è assolutamente lo stesso, e neanche la forma.»
«Allora…» disse posando i bulbi su un foglio di carta e tirando fuori un taglierino dal cassetto della sua scrivania «…bisognerà trasformare queste cipolle…» continuò tagliando i bulbi a rondelle prima di farli a pezzi «…in scalogni!» concluse mostrandomi i cubetti.
Esaminai i due mucchietti grigiastri disseminati di frammenti rosa-rossi.
«Sì, così si assomigliano abbastanza.»
«Una volta surgelate, o ancora meglio disidratate, nessuno potrà notare la differenza.»
«E il sapore?»
Mi fissò per due secondi con uno sguardo che voleva dire qualcosa del tipo “Ma sei scemo, ragazzo mio, o lo fai apposta?”, poi riprese con tono baldanzoso: «Non ti preoccupare per il sapore. Vedrai che se vendiamo dello scalogno il 10 o il 20% sotto il prezzo di mercato, nessuno si lamenterà, anche se è un po’ scipito.»
E aveva proprio ragione, il mio capo. Una strategia alla cinese.
i coloranti è proprio per dare colore e sapore a quei prodotti che ne sono carenti, no?
Sfortunatamente, come tutte le belle storie, anche questa non è durata. Cioè, almeno per noi. Il trucchetto ha perso la sua convenienza quando gli olandesi si sono messi a fare la stessa cosa, inondando il mercato di “scalogni” di bassa gamma e provocando nello stesso tempo il crollo dei prezzi.
Il colpo di grazia è arrivato un po’ di tempo dopo, quando un concorrente dell’Est della Francia ha cominciato a importare del “vero scalogno”… dall’India! Niente meno!
Ma alla fin fine, anche se ne abbiamo sofferto, devo riconoscere che in realtà è stata una trovata piuttosto ben congegnata. Perché, se in Europa dei controlli vengono effettuati (succede di rado ma succede), chi mai andrà fino in India a verificare che si tratti di vero scalogno e non di normalissima cipolla?
Risultato: il concorrente ci ha fregato i nostri ultimi clienti ed è anche riuscito a riprendere una grossa parte di mercato agli olandesi.
Tanto di cappello!
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Capitolo 22
È passato di qui, ripasserà di là
Il caso delle lasagne alla carne di cavallo è un esempio da manuale che ci mostra l’importanza, per un industriale furbo, di una buona padronanza della catena logistica. Inoltre illustra splendidamente l’utilità, per le società poco scrupolose, di avere delle filiali o di fare ricorso a società amiche (complici, se preferite) saggiamente insediate in certi paesi strategici.
In questo caso particolare, tutto comincia da alcuni mattatoi situati in Romania, Carm Olimp e Doly-Com per essere precisi, che vendono carne di cavallo. Fin qui niente di illegale, anche se mi faccio molte domande sull’origine dei cavalli e sulla loro qualità dal punto di vista alimentare. Ma su questo torneremo più avanti.
Interviene poi una società commerciale, la Draap Trading Limited, con sede legale a Cipro ma appartenente a una holding delle isole Vergini britanniche, che utilizza una casella postale belga e stocca i suoi prodotti a Breda, in Olanda. Il suo direttore olandese, assai noto nel piccolo mondo della carne, era stato condannato nel gennaio 2012 dal tribunale di Breda a nove mesi di carcere per aver venduto carne di cavallo sudamericana come manzo tedesco Halal. Eh sì, cose che capitano!
La carne di cavallo rumena sarà poi rivenduta tale e quale dal nostro commerciante cipriota-belga-anglo-olandese a diversi clienti in tutta Europa. Una grossa partita, almeno 750 tonnellate, finisce alla Spanghero, in Francia. Mi avete seguito, fin qui? Bene.
La Spanghero, senza trasformarla minimamente, rivende a sua volta questa carne, che da questo momento diventa di manzo – o almeno così viene indicato sulle etichette e sui documenti –, a diversi clienti, tra cui Tavola, una filiale lussemburghese della francese Comigel, che ne riceve 550 tonnellate.
Con questo “manzo”, Tavola produrrà, senza porsi altre domande, quattro milioni e mezzo di piatti pronti per numerosi clienti, industriali o distributori, tra cui la Findus in Svezia.
Sento qualcuno che dice «Ehi, ehi, è complicato!». In effetti è una buona analisi, e sappiate che complicato lo è di proposito. Più frontiere si passano, più ci sono soggetti coinvolti e documenti diversi in lingue diverse, più è difficile per i servizi doganali o sanitari nazionali seguire o capire cosa succede. Sappiate anche che certi paesi, a livello di controlli, sono più lassisti di altri. Quando avevo dei lotti dubbi da sdoganare (formalità che permette a un lotto di merce di “entrare” ufficialmente in Europa, dove poi può circolare e venire smerciato liberamente), di solito lo facevo in Olanda, in Belgio o in Lussemburgo. Ebbene, la Draap Trading stoccava in Olanda e aveva un indirizzo in Belgio, e Tavola produceva in Lussemburgo. Un caso?
E anche se è complicato, anche se molti intermediari si prendono una parte della torta, il gioco vale la candela: la carne di cavallo costa tre volte meno della carne di manzo. Perciò i profitti ricavati da questa frode su vasta scala sono enormi!
Chi oserà ancora dire che il ferro di cavallo non porta fortuna?
Di solito, non è la natura del prodotto a creare problemi, ma la sua origine. Far passare un prodotto per un altro raramente inganna i professionisti più esperti. La carne di cavallo è diversa dalla carne di manzo, e la maggior parte delle “vittime” sapevano che il manzo che compravano aveva un sapore, una consistenza e un colore che non quadravano. Al contrario, determinare l’origine di una carne della stessa qualità, brasiliana o tedesca, di uno zafferano dello stesso identico livello dalla Spagna o dall’Iran, di un miele dello stesso fiore dalla Turchia o dalla Cina… è quasi impossibile; mentre prezzi e vincoli per l’import cambiano notevolmente a seconda dell’origine.
Ecco perché abbiamo una filiale a Dubai. È un meraviglioso paese di transito per le merci di cui si vuole truccare la vera origine.
Attenzione, è un argomento tabù. Inabbordabile non solo con qualsiasi rappresentante di qualsiasi autorità, ma anche con tutti gli attori coinvolti, che fanno sempre finta di non capire e cambiano rapidamente discorso. Mi spiego meglio.
Partiamo dal postulato che il mondo è in guerra. Sì, ve lo assicuro, alcuni non lo sanno, isolati nella loro bolla, ma il mondo è nel pieno di una guerra economica. Le battaglie si vincono a colpi di contratti siglati per l’export o si perdono quando importazioni massicce squilibrano la bilancia del commercio estero.
Esportare è fonte di entrate e di attività, dunque di posti di lavoro per il paese che vende. Ogni paese dotato di un minimo di buon senso utilizza tutte le armi a sua disposizione per favorire le proprie esportazioni e ridurre le importazioni.
In questa nuova guerra fredda, i belligeranti avanzano mascherati e alcuni dispongono di una potenza di fuoco maggiore rispetto ad altri. Certuni sono combattivi e pragmatici, mentre altri si illudono riguardo a una situazione che li sopravanza e che ormai non controllano più.
Le armi utilizzate per avere esportazioni massicce sono: sovvenzioni e altri tipi di aiuti, dumping sociale, valuta artificialmente svalutata… Al contrario, i diritti di dogana istituiti come vere e proprie barriere, certi obblighi nonché, addirittura, gli embarghi sanitari, o ancora le quote, permettono di limitare l’ingresso nel paese di determinate tipologie di merci.
Così, importiamo in Europa grandi quantità di prodotti diversi che devono pagare dazi doganali al loro ingresso nel mercato comune. È il caso, per esempio, delle nocciole provenienti dalla Turchia (primo produttore mondiale), che sono ampiamente usate nelle creme spalmabili o che finiscono nelle nostre tavolette di cioccolato. I diritti di importazione che le riguardano sono attualmente del 3%. Bisogna anche sapere che le nocciole turche sono abbondantemente sovvenzionate dalle autorità locali e beneficiano di ogni cura da parte dei loro produttori, che utilizzano senza alcun pudore grandi quantità di prodotti fitosanitari vietati in Europa, il che aumenta sensibilmente i rendimenti e contribuisce ad abbassare i costi.
Per evitare di pagare queste tasse, ma anche per sfuggire ai controlli sanitari necessari al loro ingresso in Europa, le nostre nocciole turche vengono spedite per nave alla nostra filiale di Dubai (dove le nocciole di questa provenienza non pagano dazi doganali), e poi subito rispedite in Europa. Sono le stesse nocciole, salvo che non sono più turche ma “greche”, col sostegno di documenti ufficiali, e quindi esonerate dai dazi e senza l’obbligo di un certificato sanitario in quanto già europee. Facile e molto redditizio.
Capita anche, di tanto in tanto, che di un prodotto originario di un paese terzo venga provvisoriamente vietata l’importazione quando le autorità del paese di destinazione hanno la “fortuna” di accertare un difetto, reale, potenziale o immaginario, relativo al suddetto prodotto.
Così, i giapponesi e i cinesi chiudono immediatamente le loro frontiere ai vini, ai formaggi o ad altri prodotti alimentari europei non appena affiora un dubbio qualitativo, per esempio un batterio dall’aspetto patibolare o un additivo non meglio identificato. Gli europei fanno lo stesso, come pure gli americani…
Così, qualche anno fa, l’Europa aveva decretato un embargo totale sulla produzione animale cinese a causa della presenza massiccia nei suoi prodotti di antibiotici vietati.
Ciò avrebbe dovuto porre alla nostra società grosse difficoltà di approvvigionamento, visto che compravamo molti prodotti cinesi colpiti dal divieto, come la pappa reale e i gamberi surgelati. La Cina era di gran lunga il primo produttore mondiale di questi due prodotti.
Ma in realtà non è andata affatto così. È bastato che uno dei nostri fornitori vietnamiti, molto astuto, comprasse per noi la pappa reale in Cina e ce la rispedisse con un certificato d’origine vietnamita. Lo stesso per i gamberi, ma stavolta via Turchia. Così la Turchia, paese che esportava sì un po’ di gamberi, ma le cui risorse erano praticamente esaurite, in poche settimane ha miracolosamente esportato in Europa ingenti volumi di gamberi “turchi” dagli occhi a mandorla, senza che questo destasse il minimo sospetto nelle autorità competenti.
Molte società si comportano nello stesso modo con un mucchio di prodotti.
Sapete che i maggiori compratori di zafferano spagnolo (o venduto come tale) sono gli Stati Uniti? Ora, la Spagna esporta più zafferano “spagnolo” di quello che può produrre. Strano, no? Infatti la differenza è costituita da zafferano importato dall’Iran, primo produttore mondiale. Gli Stati Uniti possono così acquistare la quantità necessaria di zafferano sotto bandiera spagnola senza dover commerciare con l’Iran, paese contro cui hanno decretato un embargo.
Nessuno ci casca, in ogni caso non i professionisti o le dogane, e ancora meno i politici, ma tutti quanti fanno finta che la cosa non esista. Niente scandali, per piacere, sono in gioco grandi interessi.
Ah, dimenticavo: vi avevo promesso che sarei tornato su quella famosa carne di cavallo proveniente dalla Romania.
I mattatoi, nessun dubbio in proposito, sono siti in Romania. In compenso, nessuno è davvero sicuro circa la vera origine degli animali, perché l’Europa è tutt’altro che in sella rispetto alla tracciabilità di questa specie. Rumena? Può essere, ma anche no. Molto semplicemente, non esiste un sistema europeo affidabile di tracciabilità per i cavalli.
Per esempio in Svezia, paese che rispetto alla Romania – ne converrete – è decisamente avanzato, secondo il consorzio dell’industria equina (HNS), dai quattro ai novemila cavalli circa “scompaiono” ogni anno: puff, volatilizzati. Semplicemente questi animali non compaiono da nessuna parte, la loro morte o il loro abbattimento non viene dichiarato all’interno del paese. Così, a partire dal 2000, più di centomila cavalli svedesi sono spariti dalle statistiche.
Siccome è assai improbabile che questi centomila cavalli siano tornati alla vita selvaggia o siano andati a morire in un cimitero segreto, la spiegazione più plausibile è che abbiano semplicemente lasciato il paese. Poi sono stati abbattuti illegalmente in mattatoi polacchi o rumeni, che pagano per questo bestiame come minimo il doppio di quello che pagano i mattatoi svedesi.
Quanti cavalli spariscono nello stesso modo negli altri paesi? E quanti se consideriamo tutta l’Europa? Impossibile saperlo.
Ora, la tracciabilità è essenziale per la protezione del consumatore. Permette di collegare le origini dei problemi e le loro potenziali vittime. In tal modo, quando si individua un problema relativo a una determinata partita, si può rapidamente procedere al ritiro della merce, informare e aiutare le vittime.
Tuttavia la tracciabilità, anche se è indispensabile, non basta. Bisogna anche mettere in atto controlli seri e generalizzati. Controlli documentari, controlli sulle specie realizzati tramite test del dna, ricerca di molecole chimiche o farmacologiche… Tutto questo in funzione dell’alimento da controllare e dei rischi connessi a quel prodotto, che sono generalmente ben noti ai professionisti e alle autorità.
In Inghilterra, per esempio e per restare ai nostri cavalli, vengono abbattuti circa novemila ronzini all’anno. Alcuni test realizzati in questo paese hanno rilevato, nel 6% delle carcasse dei cavalli, la presenza di quantità significative di fenilbutazone, un potente antinfiammatorio. Ora, gli inglesi non mangiano il cavallo, che è considerato un animale da compagnia. Queste carcasse vengono dunque esportate e consumate solitamente in Francia, dove fino a quel momento c’erano stati solo rari controlli aleatori, totalmente insufficienti. Si può dunque logicamente dedurne che ogni anno in Francia siano state consumate più di cinquecento carcasse di cavalli impregnate di questa sostanza. La cosa si fa inquietante, quando si sa che il fenilbutazone è totalmente vietato nella catena alimentare, perché provoca nell’uomo seri problemi al midollo osseo e gravi anemie.
Se dovessi dare un consiglio, dopo tutto questo? Ebbene, vi direi senza esitare che nei vostri acquisti alimentari dovete sempre privilegiare la prossimità. Scegliete le origini locali o nazionali. Da una parte fa bene all’occupazione; dall’altra, i prodotti che non hanno attraversato molteplici frontiere presentano necessariamente meno rischi di adulterazione, di mescolanza o di inganno sulle origini, la specie o la qualità. Abbiamo la fortuna di avere nei nostri paesi prodotti variati e di qualità: sono questi che bisogna scegliere.
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Trecento tonnellate di pes-tè-cidi
Il mio collega Daniel, per gli amici Dany o “Moustaf”, è responsabile del settore “Tè e prodotti orientali”. I suoi clienti sono essenzialmente nell’Africa francofona o in Medio Oriente. Tratta grossi volumi di tè verde cinese, ma anche tè nero di bassa gamma dall’Iran o dall’Africa, e alcuni prodotti specifici come il miele scadente e gli aromi per dolci. Lavoriamo insieme anche per quanto riguarda le spezie.
Daniel è quanto di più bretone esista al mondo, ma con i suoi capelli neri arruffati, il mento sapiente mente mal rasato dai peli scuri e le conversazioni telefoniche che punteggia di parole arabe, mi fa pensare più a un venditore turco di kebab. Ci intendiamo bene, io e lui, e ci piace incontrarci, tutte le mattine, davanti alla macchinetta del caffè, per discutere dei risultati delle partite di calcio o del rugby (ma se siete stati attenti lo sapete già).
Sennonché, qualche mese addietro: «Non ti senti bene, Dany? Qualcosa che non va?».
«È per via dei pesticidi. Ho in magazzino 300 tonnellate di tè verde cinese, del Gunpowder, che sono piene di pesticidi, a livelli da ammazzare un cavallo.»
«E allora? Non è una novità» dissi, stupito che si preoccupasse per così poco. «Che io sappia, abbiamo sempre trovato un sacco di pesticidi nel tè cinese, di solito molto sopra la norma, tutti lo sanno e nessuno ci ha mai trovato niente da ridire.»
Dany posò dolcemente il bicchierino di plastica e, abbassando la voce, mi sussurrò: «Sì, ma stavolta non è un problema interno o con dei clienti. Tientelo per te, ma qualche giorno fa gli ispettori antifrode sono capitati all’improvviso nei nostri depositi e hanno prelevato dei campioni. Quando sono arrivati i risultati, hanno bloccato tutto. Per il momento non possiamo toccarlo e siamo in attesa della loro decisione finale».
«Cosa dicono questi risultati?»
«Non vogliono dirci niente, hanno solo bloccato tutto, ma per il momento non c’è niente di ufficiale.»
«Cacchio.»
Una grana lo era di certo, e bella grossa. Se l’antifrode aveva scoperto che il tè cinese conteneva veramente troppi pesticidi, cosa che tutti i professionisti del tè sapevano da molto tempo, ci avrebbero chiesto di distruggere i lotti, su questo non c’erano dubbi.
«Se ci toccherà distruggere 300 tonnellate di roba, mi cacceranno via» si angustiava dunque Dany, a ragione.
La cosa mi rattristava, Daniel era un ragazzo gentile e gradevole finito nel posto sbagliato. Mi piaceva molto ed egoisticamente temevo, in un prossimo futuro, di dover bere il mio caffè da solo, il che è decisamente meno divertente.
«Non possiamo contestare la decisione e fare delle controanalisi?» domandai, senza grande convinzione, giusto per riavviare la conversazione.
«Sei scemo o cosa? L’hai detto tu stesso, sapevamo bene che era inquinato. Una controanalisi a cosa servirebbe? È colpa mia, non avrei dovuto fare così tanta scorta.»
«E discutere con i cinesi per ottenere una compensazione? Dopotutto è colpa loro se ci sono troppi pesticidi.»
«Ma che ti succede, oggi? Hai fumato o cosa? Ti è mai successo, anche una sola volta nella vita, che un cinese ti abbia rimborsato un lotto difettoso già pagato? E ti faccio notare che stiamo parlando di 300 tonnellate, ce n’è per più di un milione.»
Porca miseria! Lo avrebbero messo alla porta, sicuro come l’oro.
Nei giorni successivi, Dany evitò accuratamente di incrociare il mio sguardo. Non faceva più le pause e io avevo iniziato a bere il caffè da solo. Deprimente. Le borse sotto i suoi occhi avevano raggiunto le dimensioni di un guanto da bagno, e non si prendeva neanche più la briga di rifinire il suo aspetto da vecchio combattente con la barba di tre giorni. Tutto quanto puzzava di fine ormai prossima, e mi aspettavo di vedere il suo ufficio vuoto da un giorno all’altro.
E poi, una mattina, pettinato e rasato di fresco, Dany mi accolse con un sorriso.
«Vieni, ti offro il caffè.»
Senza neanche aspettare la pausa e con il boss ancora nella stanza, era piuttosto insolito.
«Non indovinerai mai» mi disse raggiante davanti alla macchinetta.
«Hai trovato un nuovo lavoro strapagato e non te ne frega niente che ti licenzino?»
«Ma no, sei scemo? Per il tè, l’antifrode lascia perdere!»
Faccenda decisamente inconsueta.
«In che senso “lascia perdere”?»
«Libera i lotti, posso venderli!»
Non credevo alle mie orecchie. Per quale miracolo l’antifrode lasciava sul mercato dei lotti di prodotti alimentari che sapeva essere fuori norma?
«E i pesticidi, i limiti di legge, le analisi?»
«La procedura è annullata» mi disse, come se mi stesse annunciando che era diventato padre per la prima volta.
«Ma perché? Non è logico.»
«Non si sa, anche il boss ci è rimasto di stucco. Ieri sera ho ricevuto una telefonata dell’ispettore che mi ha detto che potevamo procedere… ma che non avrebbero messo niente per iscritto. Non vuole autorizzarci ufficialmente a vendere un prodotto fuori dalle norme, ma chiuderanno un occhio per darci il tempo di consegnare dei nuovi lotti puliti.»
«Cacchio!»
«Ti lascio, devo liquidare rapidamente la mia scorta prima che cambino idea. La prossima volta ne farò entrare meno e soprattutto lo prenderò meno appestato. Quello scadente lo manderò direttamente dalla Cina all’Africa. Il mio Gunpowder se l’è cavata per un pelo!»
Non ci capivo niente. Non era nelle abitudini dell’antifrode lasciare sul mercato dei lotti inquinati e contaminati. Trovarli e toglierli dalla circolazione è la loro ragion d’essere. Mi era già toccato far distruggere non poca merce su loro ingiunzione, miele, spezie, oli, e senza la minima possibilità di discutere. Bisogna dire che queste molecole non si accontentano di essere cancerogene, agiscono anche sulla fertilità e sullo sviluppo del feto, per non parlare del loro impatto sull’ambiente.
Ebbi la risposta a quel mistero qualche settimana più tardi, quando, nel corso di un controllo in una delle nostre fabbriche, incontrai l’ispettore che si era occupato del tè di Dany.
In tono confidenziale, mi disse semplicemente che tutti gli importatori di tè verde dalla Cina erano stati controllati in Francia e in tutto il resto d’Europa, e che il livello di pesticidi era dappertutto troppo elevato. Logicamente, i servizi sanitari di ogni stato avrebbero dovuto bloccare quei lotti e farli distruggere, mentre gli enti sanitari centralizzati europei avrebbero dovuto farsi carico di quel problema di salute pubblica e prendere provvedimenti per l’insieme dell’Unione Europea, in particolare rafforzando i controlli alle frontiere, stabilendo dei bandi, distruggendo lotti, imponendo divieti di importazione… Sì, però era la Cina. E la Cina conta molto sulle sue esportazioni di tè.
L’informazione era arrivata fino ai più alti organismi degli stati e si era deciso che fosse urgente… non fare nulla. La cosa più importante era non contrariare la Cina, perché continuasse a comprarci un po’ di aerei e non bloccasse alle sue frontiere il vino francese, le auto tedesche e il formaggio olandese. Il problema era noto a tutti, in Europa, ma nessuno voleva innescare una guerra commerciale con un partner così potente e irascibile.
Per quanto mi riguarda, bevo solo tè biologico ed evito come la peste i prodotti alimentari cinesi. Non ci tengo a beccarmi un cancro, anche se è per una causa tanto nobile come sostenere il commercio mondiale e l’amicizia tra i popoli.
Forse pensate che evitare il tè cinese basterà a mettervi al riparo dai pesticidi? Errore, di nuovo. Noi facciamo sistematicamente una ricerca completa circa i pesticidi su tutti i lotti di verdura e frutta surgelate che compriamo. Ebbene, sappiate che troviamo tracce di insetticidi, senza contare i fungicidi e altri erbicidi, nel… 100% dei casi. E non si tratta di “un” pesticida, ma di un minimo di tre o quattro pesticidi diversi che identifichiamo tra le centinaia di molecole cercate (oggi quasi 700). Perciò, un consumatore che si prende diligentemente cura della propria salute e mangia, come gli è stato detto, cinque porzioni di frutta e verdura al giorno, ingurgita ogni giorno senza sospettarlo un cocktail di una decina di pesticidi diversi.
Qualcuno vi dirà che le dosi sono bassissime e che non c’è pericolo, che è tutto assolutamente sotto controllo, e tante altre contro-verità. Spiacente di togliervi le vostre ultime illusioni ma, nel 2013, il 3% dei lotti controllati dall’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) superavano i limiti consentiti dalla legge. Ora, questi limiti sono determinati molecola per molecola, sulla scorta di test eseguiti sui topi, senza tenere conto degli effetti sinergici e cumulativi indotti dai cocktail ingurgitati sugli esseri umani. Inoltre mi pongo molte domande sui metodi di analisi dell’EFSA, perché noi, invece, troviamo problemi in più del 3% dei lotti. Potrei raccontarvi di quei peperoni rossi spagnoli che hanno fatto diverse volte il tragitto Francia-Spagna, prima che un produttore di pizze li acquistasse a prezzo ridotto, perché nessuno voleva utilizzare dei lotti così carichi di metamidofos. O di quei pomodori traboccanti di malatione, o di quelle fragole, di quelle insalate… delle centinaia, delle migliaia di tonnellate di cui voi, consumatori, vi nutrite.
Ma, beninteso, noi siamo dei professionisti dell’agroalimentare, persone discrete, e il nostro ruolo non consiste nel rassicurare l’opinione pubblica.
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Capitolo 24
Liscio come il Vormischung!
I prodotti più importanti per l’Azienda, quelli che creano il grosso del fatturato, sono le commodity. Questa categoria comprende in particolare le materie prime più comuni, generalmente quotate in Borsa: per esempio, nel settore alimentare, il cacao, il caffè, gli oli, lo zucchero, la soia, il grano… e, al di fuori del settore alimentare, il petrolio, i metalli, il cotone, il caucciù… Si tratta, come avrete capito, di derrate che vengono prodotte e che si scambiano in grandissime quantità. Sono prodotti “di base” con capitolati d’appalto semplici e standardizzati.
Gli altri prodotti, per contrasto, vengono chiamati specialty. Di solito sono più cari e a più forte valore aggiunto, ma i mercati e i volumi trattati sono molto più scarsi. Queste derrate sono infinitamente più varie, e di conseguenza i loro capitolati d’appalto sono più dettagliati. Non sono quotate in Borsa e i prezzi si stabiliscono a piacimento tra un compratore e un venditore, contratto per contratto, dopo aspre contrattazioni. È dunque un sistema immensamente più complesso e avido di risorse.
Tra le commodity, da noi la categoria regina è quella degli oli alimentari. Spesso maneggiamo contratti che superano il milione di euro e rappresentano svariate decine di migliaia di tonnellate di oli; colza, soia OGM e non OGM, girasole, palma, arachide, mais, olio d’oliva (extravergine o meno), vinacciolo, nocciola, noce, sesamo e persino karitè, un olio originario dell’Africa occidentale, utilizzato di solito in cosmetica o per sostituire il burro di cacao nei cioccolati di bassa gamma.
Quando mi fu affidata la responsabilità di acquistare gli oli, il mio capo mi prese da parte:
«Lo sai che in Francia esiste una tassa sugli oli?»
«Sì, certo, la “Bapsa”» risposi pronto.
«Esatto, la tassa per il budget annesso delle prestazioni sociali agricole a vantaggio del regime di protezione dei non salariati agricoli. Una stronzata tutta francese che non esiste negli altri paesi, tanto per renderci ancora più competitivi. Come sai, per ogni chilo venduto in Francia, dobbiamo pagare una tassa che va dagli 8 ai 18 centesimi di euro. Questa cosa ci costa milioni ogni anno.»
Lo sapevo perché l’avevo sentito lamentarsi di quella tassa decine di volte, il tutto mi era perfettamente chiaro. Allora ho fatto un commento di circostanza, giusto per fargli vedere che ero in sintonia con lui.
«In Francia sappiamo risolvere i problemi solo con le tasse. È uno schifo.»
«È proprio così» esultò il mio capo, felice di trovare in me un alleato indefettibile. «È una cazzata mostruosa. I prodotti francesi a base di olio devono subire questa tassa di merda e si ritrovano penalizzati rispetto ai prodotti fabbricati dai crucchi, dai belgi e dai mangiaspaghetti. Ma per fortuna ci sono delle astuzie…»
«Per esempio?» domandai tendendo gli orecchi, avido di venire iniziato ai sommi segreti che mi avrebbero reso ancora più furbo.
«Basta non comprare olio!»
“Basta non comprare olio!” Era incontestabile, logico… ma totalmente idiota. “Non comprare olio”… E poi? Era impazzito? Mi stava prendendo in giro?
Lieto dell’effetto ottenuto, il capo riprese: «Basta comprare una “cosa diversa” dall’olio, per esempio la “sos Vormischung”».
«Sos che?»
«Sos Vormischung. È tedesco. Si potrebbe tradurre con “salsa di premiscela”, ma di quello che vuol dire esattamente ce ne freghiamo.»
«Dove la si trova, questa “salsa di premiscela”, e cosa cambia, se ci serve comunque dell’olio per i nostri prodotti?»
«Trovarla è facile. Ascoltami bene» aggiunse avvicinandosi a me e parlando a voce molto bassa. «Basta comprare dell’olio in Germania, in Spagna o in Olanda, ma non direttamente: tramite la nostra filiale tedesca. In Germania la “Bapsa” non esiste, là nessuno farà domande. Poi la nostra filiale non ci rivende dell’olio, ma la “sos Vormischung”. In Francia definiamo questa “sos Vormischung” come una preparazione alimentare destinata alla produzione di salse, senza precisare la percentuale di olio, e il gioco è fatto.»
«Non si parla di olio?»
«Non è olio, non è più olio, ma una “preparazione”, un “prodotto semilavorato”. Su documenti, fattura, bolla di trasporto e specifiche, compare solo il termine “sos Vormischung”.»
«Ma se la filiale compra l’olio e ce lo rivende direttamente, non c’è proprio nessuna trasformazione. Non è un “preparato”» feci notare.
«E allora? Nessuno andrà a guardare nei tini o analizzerà la composizione della nostra “sos Vormischung”. Potremo sempre inventarci una trasformazione fittizia, non so, un controllo visivo, l’aggiunta di sale, di un additivo, di un po’ di bel niente in polvere. Non ti preoccupare, ci inventeremo qualcosa.»
«E in caso di controllo?» azzardai timidamente.
«Sai benissimo che i controlli sono estremamente rari, e poi, per incastrarci, l’ispettore dovrebbe poter confrontare i nostri documenti con quelli della filiale tedesca, e non c’è la minima possibilità che ottenga qualcosa dalla Germania: hanno ordini precisi, là. Fidati di me, non ci saranno problemi. E anche se un giorno saltasse fuori qualche seccatura, la filiale tedesca non dovrà far altro che accennare a un errore di traduzione e modificare le carte. Ci scuseremo bassamente: perdonate, signori e signore, era soltanto un piccolo errore senza malizia, è colpa dei crucchi. E tutti saranno contenti. Il rischio è zero.»
E aveva ragione. Era facile e molto redditizio. Prima ancora che mi occupassi della faccenda, un lotto non trascurabile del nostro olio era già stato comprato in Germania sotto la fumosa denominazione di “sos Vormischung”.
La cosa avrebbe potuto continuare a lungo, ma, sfortunatamente, un tradimento finì per svelare il nostro ingegnoso segreto. Un dipendente scontento, al corrente del nostro piccolo stratagemma, passò alla concorrenza e scoprì gli altarini. Non essendo capace di perdere, quel nostro ex collega non trovò niente di meglio da fare che denunciarci alle autorità. Squallida mentalità da collaborazionista.
Per fortuna venne riconosciuta la nostra buona fede, il che ci evitò qualsiasi sanzione, e l’errore di traduzione fu prontamente corretto.
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Caccia allo spreco in versione industriale
Nella vita di tutti i giorni a nessuno piace lo spreco, e la cosa è ancor più vera nell’industria. Tutto ciò che non viene utilizzato nel prodotto, che finisce buttato, rappresenta una perdita di denaro. E questo, sentimentalmente parlando, è duro da accettare. Perciò restereste sorpresi dall’ingegnosità espressa per utilizzare tutti i resti (sono educato) a disposizione. Il termine tecnico è: “valorizzare i sottoprodotti”.
Prendiamo per esempio la frutta. Nella realtà di oggi (che non viene mai mostrata dalla pubblicità, credetemi, ci stiamo attenti), i bei frutti non servono a fare puree, passate o altre composte e marmellate: sarebbe uno spreco totale. Viceversa, li si seleziona, e viene fatto ogni sforzo per preservare la loro integrità e la loro bella apparenza (sì, l’apparenza soltanto, perché il gusto non conta molto nell’industria). Questi frutti senza difetti, appetitosi, sono venduti così come sono, molto più a caro prezzo, proprio grazie al loro aspetto valorizzante. Messi in scatola o surgelati, servono essenzialmente come decorazione per i professionisti (torte industriali alle fragole, dolci artigianali con ciliegie o ciliegie candite, per esempio), o sono venduti direttamente al consumatore. Per le puree o i concentrati di frutta, che sono alla base delle preparazioni industriali e che si ritrovano nei nostri yogurt o marmellate, sui nostri biscotti o nei nostri succhi di frutta… utilizziamo soprattutto frutti guasti o difettati.
Per quanto riguarda la produzione delle nostre puree di fragole, che facevo fabbricare da un subappaltatore in Cile (questo paese si è specializzato nella coltivazione di questo e di alcuni altri frutti delicati grazie a un terreno molto favorevole, e produce fuori stagione rispetto all’Europa, perché è situato nell’emisfero Sud), non conosco nessuno che, se la vedesse, mangerebbe la materia prima che usiamo abitualmente. Le fragole mezze marce non sono rare (sono le meno care), e si fondono in una massa informe, popolata da qualche larva bianca e arzilla.
Nonostante la presenza di foglie un po’ sporche di terra, con un fine trituramento e una buona setacciatura si ottiene comunque una purea perfettamente rossa e delicatamente profumata. Si sterilizza, si mette un po’ di conservante, per esempio del bel sorbato di potassio o, se necessario, dell’eccellente benzoato di sodio, e buon appetito!
In Polonia, in Egitto e in Cina, con le fragole si fa esattamente la stessa cosa, in Serbia la si fa con le amarene, in Turchia con le albicocche…
Eh sì, se pensavate che i graziosi vasetti di marmellata del supermercato, con i loro packaging all’antica e i loro nomi che profumano di prodotto locale, fossero fabbricati con frutta fresca di casa nostra raccolta al culmine della maturazione, dovete abbandonare d’urgenza le vostre ultime illusioni. La marmellata di fragole, quella più venduta, di solito è fabbricata con fragole surgelate della varietà Senga sengana molto produttiva e resistente, importata in camion o container dai paesi dell’Est e persino dall’Egitto. E non vi lamentate, è sempre meglio di certe “marmellate di fragole” di bassa gamma che si trovano, per esempio, in coppette di plastica, servite con la colazione in molti alberghi (e neanche soltanto in quelli economici) e che non contengono nemmeno una fragola. Riparleremo in dettaglio di queste marmellate più avanti, abbiate pazienza.
Non c’è solo la frutta. Si fanno anche puree surgelate di verdure o verdure in polvere, e lo stesso vale per i porcini, i gallinacci, le spugnole e altri funghi selvatici. Questi prodotti servono alla fabbricazione di alimenti industriali “di alta gamma” come le paste secche ai funghi selvatici, o dei ripieni per pollame. Ma se voi poteste vedere la materia prima utilizzata, diventereste verm… scusate, volevo dire verdi.
Quanto alle spezie, ormai state cominciando a conoscerle. Vi ho già messo a parte di alcune astuzie, ma non resisto al piacere di parlarvi della nostra ricetta per il ras el hanout. Ma sì, sapete, quel misto di spezie che è indispensabile nella cucina nordafricana e viene utilizzato a profusione in piatti come il tajine e il cuscus. Da quel che mi è stato detto, è arabo e significa qualcosa tipo “capo della drogheria”, “padrone di casa”, o “primo della cucina” (spiacente di non poter essere più preciso, ma ogni volta che lo chiedo a una persona che si presume parli arabo, ricevo una risposta diversa). Insomma, si suppone che sia un misto delle spezie più rare e preziose che il droghiere possa offrire, quanto c’è di meglio nel suo negozio. Si dice anche che ogni massaia berbera abbia la sua ricetta, a base di boccioli profumati di rose damascene e di diverse decine di altre spezie di cui, da brava cuoca, conserva la lista segreta. Tutte cose che possiamo considerare fesserie.
La nostra ricetta, invece, è semplice: una base di spezie economiche, di bassa gamma, e… tutti gli scarti dello stabilimento. Nessuna rosa, né di Damasco né di nessun altro luogo, e soprattutto nessun ingrediente oneroso. I diversi campioni che i fornitori ci mandano gratuitamente? Hop! Nel calderone pieno fino all’orlo di ras el hanout. I residui della pulizia delle macchine? Hop! Nel calderone pieno fino all’orlo di ras el hanout. I lotti scaduti, l’aglio rappreso in un blocco, la farina o le nocciole infestate dagli insetti, la paprika che si è scurita, le lavorazioni sbagliate… Tutto dentro al ras el hanout!
Dunque è vero che il nostro miscuglio non è sempre molto regolare, ve lo concedo. A volte è un po’ più scuro, altre volte tende al verde, a volte è un po’ più dolce, piccante… oppure no. In questo prodotto si ritrova un po’ dell’anima del “su misura”, l’irregolarità che costituisce il fascino dell’artigianato, non trovate?
Comunque sia, nessuno sa quale debba essere il vero sapore del ras el hanout, visto che, come vi ho detto, non esiste una ricetta ufficiale ma un’infinità di varianti. Credetemi, nessuno si è mai lamentato del nostro ras el hanout, che procurava ai nostri cari clienti un piacere ogni volta rinnovato.
E cosa diventano le produzioni di salsa venute male? Credete che finiscano nella pattumiera? Non bisogna sprecare! Una maionese sbagliata, un ketchup un po’ bruciato, una salsa béarnaise con troppo aceto, una senape ossidata… Hop! Tutto quanto si “ricicla”: termine tecnico che vuol semplicemente dire che si diluisce una piccola quantità della produzione sbagliata in una produzione nuova, freschissima e bellissima.
Lo stesso vale per un lotto di miele di cattiva qualità, o per il pepe, per la salsa di cioccolato, per la crema spalmabile, la marmellata ecc. Tutto si ricicla a piccole dosi.
Mi pare di sentirli, i pignoli, che protestano contrariati sullo sfondo. Ma, alla fine, visto che nessuno sta male, nessuno viene leso! Cosa c’è che non va?
E poi significa meno spreco, meno inquinamento, quindi è più ecologico per il pianeta. Un’impresa civile deve pur pensare all’ambiente, no? Non possono certo biasimarci perché mettiamo in campo delle filiere di riciclo!
E poi costa meno caro, quindi è ottimo per il sacrosanto potere d’acquisto e, in via accessoria, per il nostro margine di guadagno.
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La lucrosa tecnica del glazing
«Questi gamberetti sono pieni d’acqua!» Di solito, quando mia moglie brontola in cucina, il che capita piuttosto spesso, evito di avvicinarla. In quei momenti, non si sa mai a quali danni collaterali ci si espone. Ma la parola “gamberetti” aveva risvegliato la mia curiosità, tanto che, preso il coraggio a due mani, mi feci avanti prudentemente.
China sul lavandino, con aria abbattuta, la mia tenera consorte fissava uno scolapasta di plastica di un bel verde anice, in cui un mucchietto rosa pallido di gamberetti sgusciati finiva tranquillamente di scongelarsi senza disturbare nessuno.
«Qual è il problema, tesoro?» mi informai, come farebbe ogni buon marito afflitto dallo sgomento della sua dolce metà.
«Guarda questi gamberetti! Fino a poco fa ne avevo il doppio. Pare che si sciolgano man mano che si scongelano! Alla fine non resterà più niente.»
«Sembrerebbero proprio i nostri gamberetti tropicali» osservai esaminando la scena del delitto da sopra la sua spalla. «Fammi vedere la confezione.»
«Tieni» mi disse lei freddamente tendendomi un sacchetto di plastica bianco e blu con il marchio di una catena di supermercati.
«Ebbene sì, sul sacchetto è stampato il nostro codice di imballaggio, guarda. Non ci sono dubbi, questi li facciamo noi! Non bisogna comprarli, tesoro, ti ho già spiegato che non è un buon prodotto. Oltretutto, le nostre ultime analisi hanno rilevato tracce di cloramfenicolo…»
«Di cosa?»
«Cloramfenicolo. È un potente antibiotico che costa poco, in alcuni paesi lo somministrano ai gamberetti mischiandolo al loro mangime. Questo evita le infezioni che possono derivare dall’essere confinati in gran numero nei bacini d’allevamento. È un prodotto molto efficace, ma anche molto pericoloso. Provoca un’anemia che per le persone delicate può essere mortale.»
«Allora perché è autorizzato?» si indignò lei.
«In Europa e in tutti i paesi sviluppati è vietato, ma la maggior parte dei paesi produttori lo utilizza ancora. Te l’ho detto, non bisogna mangiare questa roba. Ci sono dentro un po’ di gamberetti e molta acqua, più antibiotici e additivi.»
«E io come faccio a saperlo?» sibilò lei. «Sulla confezione non c’è mica scritto che è una merda.»
«Lo so bene. Con i marchi dei supermercati, il cliente non può sapere da dove viene il prodotto, chi lo fabbrica.»
«Ma come fate a vendere una roba del genere? È una truffa.»
Ahi, i rimproveri diventano sempre più diretti, presto comincerà a passare in rassegna la lunga lista delle cose da rimproverarmi. È ora che me la svigni.
«Ti lascio tranquilla, devo… devo finire di sistemare… una cosina.»
Naturalmente lei ha ragione, come spesso capita, anche se non lo ammetto mai.
È vero che i gamberetti congelati sono circondati da un generoso strato di ghiaccio. Potete verificarlo facilmente. Quel ghiaccio non è arrivato lì da solo: è l’industriale che lo aggiunge, volontariamente. È quello che chiamano glazing, ovvero “glassatura” (ma adesso tutti i professionisti parlano inglese… Buona idea, isn’t it?).
Almeno inizialmente, non è una truffa, ma al contrario una lodevole intenzione. La prima funzione di questo ghiaccio è quella di proteggere il prodotto congelato contro il disseccamento. Nell’ambiente asciutto del frigorifero, i gamberetti che non vengono glassati possono assumere un aspetto da polistirolo biancastro o diventare simili a ossi di seppia. Gli industriali seri (ma rassicuratevi, sono rari) aggiungeranno attorno ai gamberetti tra il 5 e il 10% di ghiaccio. Ciò basta a impedire che si verifichi quanto appena descritto. L’etichetta, si capisce, deve menzionare il peso netto congelato e il numero di pezzi. I prodotti a base di gamberetti congelati in modo corretto indicano quindi con chiarezza il peso del prodotto propriamente detto che si trova nella confezione.
I gamberetti non sono gli unici a essere glassati. Lo stesso vale per le cozze e altri frutti di mare, per i gamberi, i filetti di pesce, gli champignon e svariate verdure… Insomma, per quasi tutto ciò che si può congelare.
Il procedimento è abbastanza semplice. È sufficiente collocare degli irrigatori all’uscita del tunnel di surgelazione (né più né meno dei grossi frigoriferi molto potenti, i più efficienti dei quali utilizzano l’azoto liquido). Si vaporizza sui prodotti surgelati un’acqua raffreddata, a una temperatura leggermente sopra lo zero, addizionata con solfiti e altri additivi (ognuno ha la sua ricetta a base di antibiotici, stabilizzanti, conservanti…). A contatto con il prodotto, l’acqua gela immediatamente e il gioco è fatto.
Avrete già capito che i furbetti, guarda un po’, aumentano la dose d’acqua, e non è raro trovare dei lotti di gamberetti o altro con una percentuale di ghiaccio tra il 30 e il 40%, quindi con un peso netto gonfiato. Facile e maledettamente redditizio.
Ma noi siamo ancora più furbi. Ufficialmente, per conservare meglio il prodotto, usiamo un saturatore. Che cos’è?
È una macchina formidabile, benché non abbia niente di impressionante. Assomiglia a un grande armadio di metallo. Ci mettete dentro un pallet di qualsiasi cosa e, in pochi secondi, al suo interno si crea il vuoto, cosa che ha come effetto quello di “aprire” le fibre dei prodotti. Nel saturatore viene poi iniettata ad alta pressione dell’acqua carica di additivi. Quest’acqua addizionata penetra in profondità nelle fibre e imbottisce il prodotto. A quel punto, non vi resta che tirare fuori rapidamente il pallet, che in questo modo ha guadagnato qualche decina di chili, e surgelare velocemente prima che l’acqua venga rilasciata. È così che riusciamo a confezionare degli champignon pesanti come sassi quando sono congelati ma leggeri come patatine una volta evaporata l’acqua tramite la cottura. Magico, il progresso, no?
Rassicuratevi, quei gamberetti non li abbiamo mangiati. Mia moglie adesso compra solo gamberetti nordici, selvatici, pescati in Canada, in Islanda o in Norvegia. Sono molto buoni e garantiti senza antibiotici.
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Come promesso tempo fa, qui vorrei postare un intero libro un bet seller si tratta Christophe Brusset che ha lavorato per diversi anni nell'industria agroalimentare come dirigente di alto livello per importanti aziende del settore. Nel 2016 ha pubblicato Siete pazzi a mangiarlo!, questolibro è andato a ruba per i suoi contenuti veritieri e senza peli sulla lingua. Si tratta di cibo che compriamo nei supermercati, negozi, al mercato, in varie forme di confezione scatolette, barattoli, buste ecc.ecc.. ci spiga cosa mangiamo ovvero il cibo Spazzatura nei minimi dettagli cosa contiene e come viene fatto, lavorato e confezionato, Cose che minimamente ci sogneremmo di trovare nel Cibo, Vi dico già in partenza che è molto lungo pertanto lo dividerò in vari parti e capitoli così sarà più facile e rilassante da leggere.
Sempre sè.... @Baptiste mi dà L' OK !
Buona Lettura