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Siete pazzi a mangiarlo !
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Capitolo 8
Le confezioni pericolose
Capita assai spesso di ricevere i cosiddetti “resi” dai nostri cari clienti della grande distribuzione. A volte in quantità tali, e con i pretesti più strambi, che si finisce per non farvi più attenzione. Conosciamo per esperienza la percentuale di resi di questa o quella società; le differenze, rispetto alle concorrenti, sono minime. Rassicuratevi: i costi stimati sono semplicemente integrati nei nostri prezzi.
Che le vendite siano un po’ meno buone per via della crisi, per colpa del meteo o per qualsiasi altro motivo, oppure che il supermercato abbia toppato le sue previsioni al punto di ordinare troppa roba, potete essere certi che ci arriveranno dei resi per “pallet in cattivo stato”, “imballaggi schiacciati”, “consegna in ritardo di cinque minuti”, “documenti imprecisi”, eccetera eccetera.
A volte riceviamo persino dei resi senza nessuna spiegazione, ma del resto nessuno, a parte forse la Coca Cola o la Nestlé, osa mettere in discussione l’onnipotenza della grande distribuzione, perché quella può fare a meno di voi, mentre non è vero il contrario.
Perciò un reso giunto con una motivazione sensata costituisce un avvenimento notevole.
«DistriBoh ci ha rimandato venti pallet di confezioni di lenticchie!»
In ufficio nessuno ha alzato la testa per una notizia così banale, e l’esclamazione di Brigitte, la nostra responsabile della qualità, si è persa nel baccano delle conversazioni telefoniche.
«Hanno trovato dell’olio minerale nelle lenticchie!» ha aggiunto a voce più bassa piantandosi davanti alla mia scrivania.
“To’, una volta tanto una motivazione che non mi sembra penosa” mi dico guardandola.
Non si può dire che ci intendiamo alla grande, io e Brigitte. In realtà, nessuno nella mia Azienda la apprezza, per il semplice motivo che ha l’ingrato ruolo di freno e barriera. È il gendarme che imbriglia la nostra creatività. Tuttavia, il suo è un ruolo fondamentale, difficile e pericoloso per lei. Infatti, essendo incaricata di ottenere le analisi conformi che coprono le nostre attività e di aiutarci a capire gli intrallazzi e i trucchetti dei nostri fornitori e dei nostri concorrenti, si trova davvero in prima linea. Siccome noi siamo sempre borderline, Brigitte sarà puntualmente la prima, in quanto responsabile della qualità, a subire le conseguenze di un eventuale scandalo e a farsi rampognare da uno dei nostri clienti o da qualche ente statale. Lei lo sa benissimo, e questo la rende astiosa, il che certamente non favorisce il dialogo con i colleghi.
«Proprio non capisco cosa stai dicendo. Le mie lenticchie sono perfette, hai convalidato tu stessa i bollettini d’analisi.»
Sbam!
Abituata al suo ruolo di bersaglio e assuefatta alla nostra ostilità nei suoi confronti, ha incassato il colpo senza battere ciglio.
«Non viene dalle lenticchie.»
«Vuoi dire che il cliente si è sbagliato?»
«No, abbiamo controllato ed effettivamente c’è dell’olio minerale nelle lenticchie.»
Ho riflettuto un istante.
«Allora probabilmente si tratta di un inquinamento accidentale in fase di confezionamento. Ma se c’è una perdita d’olio da una macchina non vedo perché la cosa dovrebbe riguardare me.»
«Non viene neanche dalle macchine… e la cosa ti riguarda direttamente.»
Ora mi stava innervosendo. Sapevo che lo faceva apposta. Per una volta che i ruoli erano invertiti, provava un piacere maligno nello stuzzicarmi.
«Va bene, hai vinto, qual è il problema, cosa ho fatto?»
«Le confezioni!»
«In che senso le confezioni? Nelle nostre confezioni c’è dell’olio minerale? Da dove viene? Un incidente?»
«No, non è un incidente. Non hai comprato delle confezioni in cartone riciclato?»
«Be’, sì, è il mio lato ecologista.»
In realtà non è affatto così: è un argomento di facciata. La verità è che costa semplicemente di meno. Non oserei mai proporre ai nostri capi di spendere di più per dei prodotti ecologici. Mica voglio finire lapidato.
«Ecco, appunto, il tuo cartone riciclato è stato fatto in parte con imballaggi, vecchi fogli di carta, giornali ecc., che contenevano vernici, inchiostri e altre molecole chimiche non alimentari che sono migrate nel prodotto.»
«Ok, è possibile, ma non deve essercene molto. Le lenticchie sono un prodotto secco, non deve esserci una gran migrazione di quei cosi.»
Brigitte mi ha guardato con aria cattiva, come se dubitasse della mia buona fede e come se io fossi uno di quelli che tendono sempre a minimizzare i rischi per la salute pubblica.
«Quei “cosi”, come li chiami tu, sono idrocarburi di oli minerali. Sono cancerogeni e genotossici. Queste molecole si accumulano nei tessuti umani, soprattutto nel fegato, e ti preparano gentilmente un cancro che verrà pronto nel giro di qualche anno.»
«Ok, ho capito. Allora cosa facciamo?»
«È impossibile garantire l’assenza di oli minerali e di un mucchio di altri inquinanti nel cartone riciclato. Per i prodotti secchi a contatto diretto col cartone della confezione come queste lenticchie, ma anche per i fagioli, i ceci e il cuscus, d’ora in poi dovrai comprare soltanto imballaggi di cartone vergine. È l’unico modo per essere sicuri che le nostre confezioni non siano contaminate, che non inquineranno il contenuto e che non avveleneranno i consumatori…»
«Ok, bene, ne parlerò alla direzione…»
A essere sinceri, non ho mai avuto il via libera della direzione per acquistare imballaggi di cartone vergine. Questo cartone costa almeno il 20% in più del suo equivalente riciclato e, quando abbiamo chiesto ai nostri clienti se fossero disposti a pagare un po’ di più in cambio della garanzia di non avere più oli minerali negli alimenti, la loro risposta è stata inequivocabile: «Neanche per sogno». DistriBoh si è ripreso i suoi pallet, tutti quanti si sono girati dall’altra parte e fine della storia.
È il motivo per cui ancora oggi nel vostro supermercato preferito trovate pacchi di riso, pasta, corn flakes, lenticchie e altri legumi secchi in confezioni di cartone riciclato a diretto contatto con il prodotto.
Riconoscere il cartone riciclato è facile. Guardate all’interno della confezione. Se il cartone è bruno o bianco, resistente e omogeneo, allora è fatto con fibre vergini. Se è grigio (a causa degli inchiostri residui), si strappa facilmente (le fibre sono state spezzate durante il processo di riciclo) e guardandolo da vicino vi sembra eterogeneo (vi si vedono minuscoli frammenti di plastica e di fibre varie), allora non c’è dubbio: siete sicuramente in presenza di idrocarburi di oli minerali cancerogeni.
Ora che lo sapete, fate come volete.
Continua --->> Capitolo 9
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Capitolo 9
Ridipingere la vita in rosa
Quando si ha un prodotto da vendere, soprattutto se è di qualità mediocre o addirittura scadente e la concorrenza infuria, la cosa migliore è curare la sua presentazione: la confezione. Questo è il lavoro del marketing, gli specialisti delle apparenze, i campioni della cosmetica e del relooking del prodotto.
Il proverbio dice che l’abito non fa il monaco, ed è certamente vero, ma voi non potete immaginare il tempo che si passa e il denaro che si spende per far credere il contrario.
Ho assistito a un numero incalcolabile di riunioni di marketing commerciale, tutte senza esclusione una più surreale dell’altra.
«Questo tè verde non sembra abbastanza di qualità, non invoglia.»
A fare questo bilancio senza appello, con la faccia contratta in una smorfia, è Julian, il direttore del marketing. Archetipo del radical chic, individuo disilluso e condiscendente, con un’inflessione strascicata, quasi appiccicosa, è sinceramente convinto che l’umanità non sarebbe mai uscita dal Medioevo senza i lumi salvifici del marketing.
Naturalmente, quando decreta che il nostro tè verde non sembra di buona qualità, non sta parlando del prodotto in se stesso, ma della scatola di cartone che lo contiene. Il suo lavoro consiste nell’occuparsi di ciò che il cliente vede sugli scaffali, non del prodotto contenuto nella confezione. Di quello se ne sbatte. Del resto, non si è mai preso la briga di assaggiare il nostro tè, e non ha la minima idea della sua qualità.
«Bisogna» prosegue «che al primo sguardo Tizio si dica: “Questo tè è il migliore”. Dev’essere una cosa immediata, evidente.»
«Va bene, ok, Julian, tutto questo è molto bello,» interviene il direttore commerciale «ma tu ci hai già fatto mettere un’illustrazione carina, un bel po’ di dorature, un cartone più spesso e una patina brillante. Adesso la scatola costa più del tè che c’è dentro!»
«E allora? Nessuno ci capisce niente di tè verde, è la confezione che deve orientare l’acquisto verso il nostro marchio piuttosto che verso quello dei nostri concorrenti. La regola numero uno del marketing è che tutti credono a quello che è segnato sull’etichetta, o sulla scatola, come nel nostro caso. Quindi bisogna rendere la nostra confezione abbastanza convincente, attraente, piena di promesse, per invogliare il cliente a sceglierla.»
«Però non è che ci possiamo scrivere sopra qualsiasi cosa!» obietto io.
«Ma certo che sì! Bisogna semplicemente farlo con intelligenza, con finezza, scegliere bene le parole e le illustrazioni. Devono essere positive e permetterci di dirottare l’attenzione del consumatore dove vogliamo noi.»
«Non ci capisco niente» sbuffa il direttore commerciale.
«Eppure è semplicissimo» sbotta Julian, irritato, in un tono sgradevolmente acuto. «Se voglio vendere una crema spalmabile piena di zucchero e olio come devo fare?»
«Uffa! La girerò in positivo parlando della ricchezza energetica del prodotto, invece di nasconderla. Dirò che il mio prodotto permette ai bambini di avere tutta l’energia di cui hanno bisogno per le loro spossanti giornate scolastiche. Oppure metterò in evidenza gli ingredienti minori positivi, “le buone nocciole per pensare bene” e “il buon latte per le sue ossa”. Afferrate il principio?»
«Sì, d’accordo,» ribatte il direttore commerciale «ma nel caso del nostro prodotto stiamo parlando di semplice tè.»
«Ma è perfetto! Semplice tè… Possiamo scrivere “100% naturale”, “senza additivi aggiunti”, “qualità garantita”, “pieno campo”… abbiamo un mucchio di possibilità. Guardate i Chupa Chups, i lecca lecca. Sono solo zucchero colorato e aromatizzato, e sono stati capaci di scrivere “0% di materie grasse” sulle confezioni.»
«È una presa per il culo» mi lascio scappare.
«È marketing, e tecnicamente è corretto» si indigna Julian. «Non si mente, semplicemente si mettono in luce i vantaggi del prodotto per il consumatore. Il messaggio deve essere positivo, valorizzante per il prodotto, in breve deve far vendere, ed è quello che vogliamo, no?»
«Io parteggio per la “qualità garantita”,» interviene il direttore commerciale «ma forse è un po’ troppo leggero.»
«La domanda che dobbiamo porci è: come fa l’azienda leader a emergere sul mercato e a diventare la numero uno?» riprende l’esperto del marketing.
«Be’, per questo tipo di tè» risponde il direttore commerciale «il leader ha una buona reputazione e una buona qualità, anche se non è migliore della nostra. I clienti lo chiamano il “cinque stelle”, perché ci sono cinque stelle dorate stampate in alto sulla scatola.»
Julian resta per un breve istante silenzioso. Poi, come parlando con se stesso, aggiunge: «Cinque stelle… Quindi i clienti inconsciamente collegano queste stelle alla qualità del prodotto. Più stelle ci sono, migliore deve essere il prodotto, un po’ come per gli alberghi. Un due stelle è meno buono di uno che ne ha tre, e perché un albergo sia di lusso ci vogliono cinque stelle… o di più».
È stato così che, molto semplicemente, abbiamo stampato sei stelle dorate sulla nostra confezione di tè verde: una in più del prodotto leader. Se questa non era la prova che eravamo migliori…
Per reazione, il concorrente con cinque stelle ne ha aggiunte due. Tanto che, per una sorta di escalation, le confezioni si sono presto ritrovate a ostentare ricami di stelline dorate su tutti i lati della scatola, a decine. Il tè all’interno, invece, non è mai cambiato: né il nostro né quello dei nostri colleghi. Un prodotto mediocre, ricco di pesticidi, in una confezione dorata, brillante… e stellata.
Da noi, nessuna donna partecipava alle riunioni marketing, anche quando era evidente che un punto di vista femminile sarebbe stato utile. Perché, con l’eccezione di alcune linee di produzione ad alto ritmo, dove è necessario un minuzioso lavoro manuale e nessun facchinaggio, l’agroalimentare è un ambiente piuttosto maschile. E questo è ancora più vero quando si sale nella gerarchia. Le donne sono rare tra i quadri e rarissime tra i dirigenti.
«Le nostre vendite di prodotti per i dolci calano negli ipermercati» si lamenta il direttore commerciale.
«È normale» intervengo io. «Sono anni che non facciamo innovazione, non lanciamo nuovi prodotti, non facciamo animazione nei punti vendita.»
«Può darsi, ma non sarà la comparsa di un nuovo prodotto che si aggiunge a una gamma che ne conta già ottanta o una nuova confezione per il lievito chimico a stimolare le vendite» ribatte lui. «Abbiamo bisogno di un relooking totale del nostro assortimento. Qualcosa di più moderno, che attiri lo sguardo. Cosa ne pensi, Julian?»
«Sono totalmente d’accordo» esclama il direttore del marketing, estasiato perché ancora una volta si fa appello alla sua nobile e preziosa arte. «Bisogna fare un’operazione in grande. Stiamo parlando di una gamma di prodotti destinati alle donne. Quindi ci vuole un messaggio che parli direttamente alle donne, dobbiamo femminilizzare la nostra offerta. Dobbiamo porci questa domanda: “Cosa piace alle donne?”.»
«Le commedie romantiche, le boy band e altre stronzate di questo tipo» ironizza il direttore commerciale.
«Ok, buttiamo giù le nostre idee su un foglietto» riprende Julian con un pennarello in mano… «Le donne sono romantiche, amano truccarsi, i gioielli, i profumi… Che altro?»
A questo punto i suggerimenti cominciano a piovere da tutte le parti.
«I merletti!»
«Tom Cruise e Leonardo di Carpaccio!»
«Il rosa!»
«Il colore rosa, sì, ottima osservazione» riprende Julian pensieroso. «Perché non fare una gamma di prodotti rosa, come per lo zucchero di non mi ricordo più che marchio?»
«Ma sì, è un colore poco usato in ambito alimentare, potremo distinguerci» approva il direttore commerciale.
Nonostante il consenso quasi generale, l’idea mi sembra semplicistica e non riesco a farmela piacere: «Stiamo partendo dal presupposto che se è rosa le donne lo compreranno per forza… Non è un po’ riduttivo?».
«Per niente» si indigna Julian. «Una delle regole fondamentali del marketing è che l’idea che ci si fa del prodotto è più importante del prodotto stesso. Dobbiamo fare un focus sul messaggio positivo che vogliamo far passare. Scegliere il linguaggio giusto, le illustrazioni, il colore, ecc. Nespresso non vende caffè, ma un’esperienza; la Ferrari non vende automobili, ma un sogno; Danone non vende yogurt, ma prodotti lattieri buoni per il vostro corpo; Apple non vende telefoni, ma innovazione; Lacoste non vende polo, ma uno stile di vita elegante e rilassato, e così via. Non dobbiamo semplicemente proporre alle nostre clienti delle bustine di lievito e dei baccelli di vaniglia, questo lo sanno fare tutti, ma proporgli una vera e propria cosmesi pasticcera, la moda trasposta sul piano culinario.»
«Allora cambiamo solo il colore e nient’altro? Nessun nuovo campionario, nessuna miglioria tecnica, nessuna promozione? Perché non chiedere direttamente l’opinione di qualche cliente o delle nostre dipendenti?»
«Non serve» si arrabbia Julian, irritato che qualcuno possa dubitare anche solo per un attimo del suo genio creativo e del suo acume psicologico. «Quando vedranno il rosa ci si butteranno sopra, sono condizionate fin dalla prima infanzia. Di psicologia me ne intendo e posso assicurarti che non bisogna sottovalutare quanto sia forte la persistenza dell’educazione.»
Ed è ciò che abbiamo fatto. Bustine di lievito rosa, candeline di compleanno in blister rosa, preparati per brownies in astucci di cartone rosa: un’intera gamma di prodotti per la pasticceria di colore rosa fluorescente… che non si è venduta meglio della precedente. Valle a capire, le donne!
Il marketing si sforza di assicurare la coerenza prodotto-imballaggio utilizzando certi “codici” più o meno affidabili. Una confezione rosa indica un prodotto per le donne; le gocce d’acqua stampate su un sacchetto di plastica vanno bene per un prodotto fresco; i barattoli di vetro si usano per le conserve di alta gamma; la doratura è destinata a un prodotto d’eccezione; il nero vuol dire premium, il verde vuol dire naturale…
Per la nostra gamma di prodotti biologici, le normali confezioni di plastica non sembravano abbastanza naturali. Così abbiamo fatto ricorso alle soluzioni “pseudo-naturali” offerte dai produttori di imballaggi.
Abbiamo cominciato con delle plastiche oxo-biodegradabili, “oxo-bio” per gli amici. Sono plastiche non realmente biodegradabili bensì “frammentabili” e generalmente a base di polimeri sintetici. Alla plastica vengono semplicemente aggiunti degli additivi chimici che consentono di programmarne la frammentazione, liberando così nell’ambiente una moltitudine di scagliette di plastica che come risultato finale produrranno le cosiddette “microplastiche”, minuscole particelle che non hanno nulla di ecologico. Queste polveri di plastica, anche se sono diventate ormai invisibili, inquinano l’ambiente e si ritrovano in tutta la catena alimentare.
Nel numero dell’ottobre 2014, la rivista «60 Millions de consommateurs» ha pubblicato i risultati di uno studio che rivelava la presenza in grande quantità di queste microplastiche nei vasetti di miele. Su dodici campioni – dieci di mieli convenzionali e due biologici – comprati nei supermercati francesi, il 100% risultava inquinato, sebbene in quantità minori per i mieli francesi e bio. Le quantità rintracciate andavano da 74 a 265 particelle per chilo di miele. Sta a voi calcolare quante ne ingerite insieme ai vostri bambini ogni mattina a colazione con il miele che spalmate sulle fette di pane.
E non si trovano solo nel miele, ma anche nel pesce, in tutti i molluschi, nelle ostriche e negli altri mitili, e persino nei comunissimi pacchetti di zucchero in polvere. In realtà, è l’insieme dei prodotti alimentari a contenerne in quantità più o meno grandi.
Difficile riuscire a evitarle, davvero. Senza generalizzare oltre misura, è evidente che tutti noi ingeriamo ogni anno qualche migliaio di questi microframmenti di plastica. Con quali conseguenze per la salute? Nessuno lo sa, ma è certo che mandare giù, anno dopo anno, questi cocktail di plastica contenenti bisfenolo A, ftalati e ritardanti di fiamma polibromurati non deve avere un impatto granché positivo.
La carta e il cartone sembrano naturali, soprattutto se sono di un bel colore marroncino. Sono riciclabili, ma non resistono all’acqua, si lacerano, non si saldano, non fanno da barriera all’ossigeno, insomma in molti casi sono inutilizzabili.
Alcuni produttori di imballaggi hanno dunque spalmato il cartoncino con un sottile strato di plastica trasparente. Ciò rende la carta impermeabile pur lasciandola ben visibile e riconoscibile. Questa carta spalmata viene poi incollata su un foglio di plastica classica per darle rigidità e saldabilità. Il risultato è una confezione composita che sembra naturale ma che è del tutto impossibile riciclare, perché i materiali che la compongono non sono più separabili. Il colmo, quando si sa che la carta e la plastica da sole si riciclano perfettamente.
Come gli uomini politici, gli imballaggi mantengono raramente le loro promesse. Diffidate dei packaging sfarzosi, dei nomi inventati ad hoc, delle formule che non vogliono dire niente, dei colori chiassosi, delle immagini appetitose, dei materiali falsamente naturali o falsamente artigianali. Tutte queste cose non sono altro che polvere negli occhi. Solo il prodotto conta.
Continua --->> Capitolo 10
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Capitolo 10
Indovina l’età!
La maggior parte dei miei amici, che hanno poca familiarità con l’universo spietato dell’agroalimentare, non sanno distinguere tra la data di scadenza (vale a dire la data limite di consumo) e il termine minimo di conservazione (TMC). Eppure, per il consumatore è una nozione di primaria importanza.
Cosa sono, dunque, questi periodi di grazia, e come vengono fissati?
La data limite di consumo, solitamente indicata dopo la dicitura “da consumarsi entro…”, indica un limite temporale relativamente ravvicinato oltre il quale può essere pericoloso consumare il prodotto. È il caso di tutti gli alimenti che vanno obbligatoriamente conservati al fresco, come i latticini e le carni crude. Questi prodotti sono molto delicati perché contengono naturalmente tutta una serie di microrganismi (batteri, lieviti e funghi) e costituiscono un ambiente molto favorevole al loro sviluppo. Non hanno subìto trattamenti (o li hanno subiti in minima parte) che permettono di eliminare questi germi o di impedirne la crescita. La conservazione al freddo (sotto i 4 gradi Celsius) permette soltanto di rallentare la loro inesorabile proliferazione, e il rischio di intossicazione alimentare, se si consumano questi prodotti oltre la data di scadenza, è concreto.
Questa data limite di consumo è fissata dal produttore, tranne nel caso particolare del latte crudo, per il quale è regolata da una normativa precisa. Con una data di scadenza fissata a regola d’arte, teoricamente il consumatore non ha nulla da temere fino alla data fatidica… a condizione che la catena del freddo sia stata scrupolosamente rispettata. Il che non è scontato, visto che, com’è noto, per carenza di personale e di celle frigorifere, molti negozi – in particolare gli hard discount – lasciano che i prodotti si scaldino troppo a lungo sulle banchine di scarico e nei magazzini mal isolati.
Nonché, beninteso, a condizione che i prodotti non siano stati rietichettati per dargli uno o due giorni di vita supplementare: questa pratica illegale, che in Francia viene chiamata remballe (“reimballaggio”), è ancora molto diffusa ai giorni nostri.
Il termine minimo di conservazione è tutt’altra cosa. Introdotto dalla dicitura “da consumarsi preferibilmente entro…”, indica la scadenza oltre la quale il prodotto semplicemente perde le sue “qualità specifiche”, senza per questo diventare pericoloso da consumare. Apprezzate la precisione del testo: “perdere le qualità specifiche” può significare meno sapore o meno vitamine, perdita di colore, modificazione della consistenza, cambiamento di odore…
I prodotti coinvolti sono quelli che si possono conservare a lungo, per parecchi mesi o persino per anni, senza rischio di avvelenamento. I microrganismi sono stati tutti eliminati (sterilizzazione termica come la UHT, cioè l’ultrapastorizzazione a temperatura ultra-alta, ionizzazione), o non vi trovano le condizioni propizie al loro sviluppo.
È il caso, per esempio, dei biscotti secchi, delle paste secche, dei legumi secchi, della confetteria, delle salamoie… Insomma, di tutto ciò che non contiene abbastanza umidità, dei prodotti con conservanti come alcol e di quelli acidi (aceti e sottaceti)… È anche il caso dei prodotti che hanno subìto un trattamento di stabilizzazione tramite il freddo (i surgelati).
È all’industriale, in qualità di specialista del prodotto, che spetta l’insigne onore di stabilire il termine minimo di conservazione. Per fare ciò, in teoria deve effettuare un test di invecchiamento: a temperatura ambiente se ha il tempo, o in un forno di essiccazione (uno spazio chiuso riscaldato) per accelerare i fenomeni di deterioramento. Durante questo test, osserva attentamente le modificazioni del prodotto e verifica dopo quanto tempo perde le sue “qualità specifiche”.
Come potete immaginare, è un’arte sottile e raffinata determinare se un prodotto si sia “sensibilmente” deteriorato per quanto riguarda questo o quel parametro dopo due mesi soltanto, o dopo sei, o dodici, o più ancora…
Tanto più che, per semplificare le cose, generalmente i distributori fanno pressione affinché l’industriale allunghi al massimo i suoi minimi di conservazione allo scopo di avere più tempo a disposizione per rifilarvi il prodotto senza rischiare che scada mentre è ancora sugli scaffali o a fine scorta. E succede troppo spesso che l’allungamento di certi TMC venga spinto oltre il ragionevole.
Anzi, è esattamente ciò che avviene per la maggioranza dei prodotti. Per esempio, nel caso della nostra paprika in polvere, abbiamo fatto i test più rigorosi, dai quali è emerso che il parametro essenziale, il colore rosso tipico di questa spezia, è delicato e si deteriora sensibilmente in soli sei mesi. Da un bel rosso, eravamo passati a un rosso mattone che tendeva al marrone. Anche il sapore era cambiato: era più scialbo, ed era comparsa una leggera nota di olio ossidato.
A rigor di logica, si sarebbe dovuto fissare il termine minimo di conservazione al massimo a sei mesi dalla data di fabbricazione, dal momento che la spezia aveva perso il suo colore, caratteristica essenziale del prodotto.
Tuttavia, siccome dalle nostre parti questo prodotto viene consumato solo in maniera molto occasionale, le boccette di vetro della paprika possono restare in giacenza piuttosto a lungo, e gli ipermercati hanno rifiutato categoricamente un TMC così breve. Abbiamo fatto il giro dei negozi della città per controllare cosa indicavano i nostri concorrenti su prodotti e confezioni simili. Senza farsi scrupoli, tutti quanti indicavano un termine minimo di conservazione di due anni!
Se avessimo indicato sei mesi, chiaramente non l’avremmo mai venduta. Quindi abbiamo fatto come tutti gli altri. Buon appetito a chi consumerà una paprika vecchia di due anni, ufficialmente buona per il consumo ma dal colore sbiadito e, nel migliore dei casi, senza il minimo sapore.
La gara ad allungare i termini minimi di conservazione si pratica su moltissimi prodotti. Gli scaffali sono pieni di prodotti dal TMC ampiamente gonfiato su imposizione dei clienti e che noi industriali sappiamo benissimo essere troppo lungo. Ma nessuno ci trova nulla da ridire, non è pericoloso e in genere si riesce a vendere i prodotti ben prima che raggiungano la data fatidica.
Ciononostante, nel fare la spesa, di tanto in tanto certamente vi imbatterete in una paprika più bruna che rossa, in un tè aromatizzato scipito, in una maionese dal retrogusto rancido, in una senape un po’ ossidata, in un cioccolato un po’ impallidito… Eppure tutti questi prodotti sono ben lontani dall’aver raggiunto il loro termine minimo di conservazione.
Ma il peggio deve ancora arrivare!
Può succedere che un prodotto superi il TMC, anche se generosamente lungo, o che gli si avvicini troppo perché si riesca a venderlo. È la catastrofe totale. Non c’è alcuna soluzione possibile, perché bisognerebbe rietichettare o fare la remballe – il che, oltre a essere vietato, è particolarmente complesso.
Spezza davvero il cuore dover buttare dei prodotti che si potrebbero vendere senza pericolo per il consumatore se solo quella maledetta data venisse semplicemente spostata in là di qualche settimana o di qualche mese.
Perciò, per i nostri prodotti confezionati in vasetti di vetro o plastica, abbiamo trovato il trucco: stampare il termine minimo di conservazione sul tappo!
Qual è il vantaggio di stampare il TMC sul tappo invece che sul vasetto?
Be’, è molto più facile ed economico – sebbene altrettanto vietato – sostituire un semplice tappo che non l’intero vasetto con tanto di etichetta incollata sopra. Sono sufficienti dei tappi nuovi di zecca e qualche lavoratore interinale con un bel senso della discrezione in fondo allo stabilimento: in poche ore, migliaia di vasetti riacquisteranno la loro giovinezza.
Pratiche marginali?
Informatevi e scoprirete che, ogni anno, decine di esercizi commerciali, ristoranti e fabbriche si fanno bacchettare dalle autorità statali di controllo per aver venduto prodotti scaduti. E stiamo parlando di superamento sia del termine minimo di conservazione sia della data di scadenza.
Ma, come sempre, solo un’infima minoranza di frodi viene scoperta e sanzionata.
Il mio consiglio per evitare i problemi, che possono andare dalla semplice delusione (se il prodotto ha superato il termine minimo di conservazione) alla diarrea grave (se a essere superata è la data di scadenza), è questo: scegliete prodotti dalle scadenze il più possibile lontane. Personalmente, non compro mai un alimento che abbia superato i due terzi della sua durata di vita.
Detto questo, se gli involtini di salmone con salsa di panna al limone in offerta giunti ufficialmente alla vigilia della data di scadenza vi tentano, vedete voi.
Continua ---->> Capitolo 11
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CAPITOLO 11
A brigante, brigante e mezzo
C’è una parola che usciva di continuo dalla bocca dei miei capi, e che avrebbe potuto da sola riassumere perfettamente i nostri obiettivi e l’etica dell’Azienda, quasi la sua ragion d’essere. Il mio capoufficio la sputava fuori tra una bestemmia e l’altra per stimolare la squadra, ma non faceva altro che ripetere a pappagallo gli sproloqui dei suoi capi, quelli che viaggiavano a bordo di grosse berline tedesche immatricolate in Svizzera (per non pagare la tassa sulle macchine aziendali) e parcheggiate il più vicino possibile alla porta d’ingresso per risparmiare le suole delle loro Weston. Non facciamo durare più a lungo la suspense, questa parola magica era: “furbo”.
Bisogna essere “furbi”.
Siate più “furbi”.
Si ha un certo volume di vendite e un certo fatturato perché si è i più “furbi”.
Personalmente, prima di arrivare nell’Azienda, non me ne fregava niente di essere “furbo”. Trovavo che andasse più che bene essere onesto, lavoratore, colto, ambizioso, insomma tutte queste cose. Ma mi hanno subito fatto capire che “furbo” era meglio.
Il termine “furbo” esprime un concetto sottile il cui senso profondo può mutare radicalmente a seconda del contesto e del punto di vista. Comodo, perché permette a due persone di accordarsi sulle parole senza avere bisogno di concordare sulle idee. Un furbo è un dritto, un tipo intelligente che sa cavarsela nelle situazioni pericolose, come MacGyver, capace di riparare tutto con un pezzo di fil di ferro e un rotolo di nastro adesivo. Ma può anche essere un tipo scaltro, al limite del disonesto.
E poi, per essere precisi, quando ci dicevano di essere “furbi”, bisognava interpretarlo come “più furbi degli altri”. Era sottinteso. E questo ha la sua importanza.
Il nostro credo avrebbe potuto essere: «La nostra Azienda è la più furba». Fare business sul confine evanescente della legalità era dunque naturale. Con un unico divieto: farsi beccare.
Avete già capito che per non farsi beccare c’è un imperativo che è… qualche secondo di suspense per quelli tra voi che amano particolarmente giocare… che è… disporre di analisi conformi, ovvio!
La regola d’oro è la seguente: LE ANALISI DEL PRODOTTO DEVONO ESSERE IN CONFORMITÀ CON LE NORME.
È il principio basilare del food business.
Molte persone pensano che le analisi permettano di capire tutto, di sapere tutto, come nei telefilm americani in cui la polizia scientifica, con un pezzetto d’unghia del mignolo del piede della vittima, dà un nome all’assassino, trova il suo indirizzo ed elabora il suo tema astrale. Neanche per sogno! La realtà è molto più complicata.
Il documento di base è la norma con cui si stabilisce che il tal prodotto deve avere il tot per cento di questo, il tot per cento di quello e il tot per cento di quell’altro. Se è così, tutto a posto.
Il sapore? L’odore? La consistenza? La qualità nutrizionale? Le tracce di elementi non identificati? Se non ci sono difetti lampanti, tutti se ne infischiano!
Nessuno cerca di approfondire. A che scopo? Costa caro, ci vuole più tempo e, in generale, quando si cerca la merda la si trova, e ci finiscono dentro tutti quanti.
Credete davvero che nessuno sapesse che la carne di cavallo aveva preso il posto di quella di manzo? Andiamo! Per anni e anni. Centinaia di tonnellate… E nessuno si sarebbe mai accorto di nulla? Eppure veniva controllata, analizzata, venduta e consumata. Ma quando non si vuole vedere…
L’esempio migliore che conosco è quello della pappa reale. Rassicuratevi, è stato tanto tempo fa, quindi è andato in prescrizione, e voi sapete bene che oggi, ovviamente, queste pratiche non sono più in uso… Ovviamente…
Fabbricata dalle api, la pappa reale è un prodotto estremamente difficile da raccogliere, perché le quantità disponibili in ogni alveare sono piccolissime, e la raccolta richiede molto tempo e molto lavoro. Tutto ciò logicamente ne giustifica il prezzo elevato. Tanto più che la pappa reale è un esempio perfetto di prodotto marketing, un’illusione che fa vendere. Pochissimo prodotto (ammesso che ci sia davvero) nel vasetto, ma il nome scritto in grande con la promessa (che non costa niente e vincola solo il gonzo che paga) di un mucchio di benefici non verificabili e di una vita migliore, lunga e prospera.
Necessariamente, su un mercato come quello, potevamo guadagnare parecchio con pochi rischi, a patto di essere “furbi”. Degli amici cinesi ci hanno fabbricato un surrogato di pappa reale a base di miele, polline filtrato, materie grasse vegetali, fruttosio ecc. che soddisfaceva perfettamente i controlli basilari di routine. E siccome la pappa reale è un prodotto molto marginale, negli scambi internazionali, i controlli approfonditi svolti dalle dogane e dai servizi sanitari sono assai rari. In genere non sanno neanche cos’è, e poi hanno ben altre gatte da pelare.
Nel giro di poco tempo, il mercato è stato inondato dalla pappa reale made in China, che costava un quarto del prezzo normale. Certo, di primo acchito il prodotto ha sorpreso alcuni esperti, il sapore e la consistenza non erano assolutamente gli stessi, ma va be’, magari con le api cinesi è diverso, e soprattutto era incredibilmente più economico. Le analisi di base erano perfettamente conformi. Perciò che importava se il sapore non aveva niente a che vedere con quello della pappa reale che conoscevamo? Oltretutto, questo prodotto non viene praticamente mai venduto così com’è, ma diluito in modo omeopatico, nel miele ordinario o di bassa gamma, per meglio valorizzarlo.
Dovete riconoscere che è una gran furbata. Abbiamo venduto questa pappa reale per anni con enormi profitti, prima di cedere il ramo miele. Sono sicuro che oggi nessuno fa più una cosa del genere. Anzi sicurissimo. Dormite tranquilli e non ascoltate le male lingue che dicono che la Cina esporta oggi più prodotti apistici di quelli che le loro api in via d’estinzione sono in grado di produrre.
Bisogna mettersi bene in testa che l’analisi è al centro del “sistema food”. Il bollettino d’analisi è il documento che dovrebbe comprovare che l’azienda rispetta i suoi obblighi di controllo e di sicurezza. In caso di problemi, è importantissimo avere sottomano un’analisi che dimostri che avete realizzato tutti i controlli di base e che la vostra è una società responsabile. Beninteso, se disgraziatamente la frode non è individuabile tramite queste analisi di base, assumerete il ruolo della vittima…
Prendiamo, per necessità pedagogica, il bizzarro e puramente immaginario esempio di una filiera che parta da un cavallo e sfoci in un piatto di lasagne al ragù di manzo. Visto che nel mondo dell’industria la magia non esiste, deve esserci una frode da qualche parte, tra il pascolo dove il suddetto cavallo saltellava e il congelatore del supermercato zeppo di questi deliziosi piatti pronti. Ma una cosa del genere è possibile, con tutti i controlli lungo la catena di produzione? In realtà è abbastanza semplice, e gli ingredienti sono i seguenti.
Una catena lunga. Quanti più sono i soggetti coinvolti e le frontiere, meglio è. I documenti sono redatti in lingue diverse e i servizi sanitari, veterinari, gli ispettori antifrode, le dogane… possono agire solo nei rispettivi paesi. Le autorità nazionali faticano a coordinarsi da una parte all’altra delle frontiere.
Dei documenti non troppo precisi, difficilmente leggibili, per esempio con prodotti indicati da codici specifici delle singole aziende. È un po’ come inventarsi una propria lingua, affinché nessun altro a parte voi ci si raccapezzi. Si scriverà per esempio “articolo VDN52125” anziché “carne di cavallo”, mentre la “carne di manzo” diventerà l’“articolo VDN52135”. E siccome nessuno è immune da un piccolo errore di digitazione…
Delle analisi falsate. Le analisi dovrebbero chiudere il sistema provando in maniera scientifica che il prodotto è sano e corrisponde esattamente all’etichettatura. Ma cosa si trova nelle analisi di base sulle carni? Il tenore in proteine, l’umidità, la percentuale di grasso. Niente che garantisca formalmente sulla specie animale in questione. E un professionista furbo saprà perfettamente quale carne di cavallo scegliere perché le analisi di routine siano compatibili con quelle di una carne di manzo.
Se si vuole la perfezione, l’ideale sarebbe vendere dei pezzi piccoli, delle rifilature, o meglio ancora triturare tutto. Non c’è niente di meglio della carne trita o del famoso minerai de viande, vale a dire gli scarti di macellazione! In questo modo è facilissimo aggiustare la percentuale di grasso e rendere invisibili le differenze di struttura e di colore delle carni.
Beninteso, nella filiera serve almeno un vero frodatore. Qualcuno che acquisti consapevolmente della carne di cavallo e la rivenda come manzo. Ma credete davvero che i suoi clienti – industriali che trattano da anni volumi considerevoli, impiegano degli specialisti delle carni e dispongono di servizi qualità che analizzano centinaia di partite – non si accorgano di nulla? È semplicemente impossibile. Non ci si può credere nemmeno per un secondo!
Gli esperti come me conoscono perfettamente il prezzo di mercato dei prodotti che comprano e sanno che bisogna diffidare dei lotti e dei fornitori poco costosi. Discutono tra loro durante le fiere campionarie e nelle organizzazioni professionali, e le aziende suscettibili di abbandonarsi a manovre illecite sono note. Non si cade nella delinquenza dall’oggi al domani, ci vogliono delle predisposizioni, e ci sono aziende – così come ci sono individui – che godono di una cattiva reputazione.
Un test di tracciabilità serio, che segua un determinato lotto lungo tutti i passaggi, svelerebbe subito gli altarini. Infine, effettuare ogni tanto un test di controllo genetico, affidabile e sempre meno caro, renderebbe decisamente più sicura tutta la filiera. Ma bisogna volerlo sul serio.
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Capitolo 12
Case per i puffi
Non è raro, con i prodotti alimentari delicati, che certe caratteristiche minori, come l’aspetto, il gusto o l’odore, siano alterati. Anzi succede di continuo. È una sfortuna, di solito involontaria, ma il prodotto si ritrova a essere meno attraente, un po’ come una Miss Mondo che abbia appena sgranocchiato una tartina spalmata di formaggio all’aglio e a cui spunti qualche pelo dal décolleté. Non si può dire che siano difetti gravissimi, ma l’immagine ideale che ci si faceva della Miss in questione ne risulterebbe decisamente rovinata. In un caso come quello, sono sufficienti alcuni semplici artifici – come un maglione con il collo alto e uno spray alla menta – per restituire alla bellezza tutto il suo splendore. I difetti non sono eliminati, sono solo nascosti, abilmente camuffati.
Per quanto riguarda gli alimenti, è semplice: basta fare la stessa cosa. E davvero non si esita a farlo.
La prima volta che mi sono dovuto occupare di una “quasi Miss Mondo”, è stato durante il mio primissimo giorno di lavoro in qualità di trader. Il mio nuovo capo mi aveva presentato velocemente alla squadra e sistemato a una scrivania su cui era posato un unico e voluminoso fascicolo arancione.
«Leggi questo e proponimi delle soluzioni» mi aveva detto indicandomelo con un indice imperioso. «Sei un ingegnere, dovrebbe essere una cosa facile, per te. Ci vediamo tra un’ora.»
Prima che avessi avuto il tempo di chiedergli qualsiasi cosa, era uscito in tromba dalla stanza, un vasto open space occupato da otto scrivanie del medesimo modello con sedie e lampade assortite. La mia, così avevo capito, era messa proprio di fianco alla sua, sulla destra. Davanti a noi c’erano due assistenti e, in fondo alla stanza, tre compratori con un’assistente. Erano tutti al telefono. Contrattavano accanitamente, ne dicevano di tutti i colori e si congratulavano con un frastuono ininterrotto in inglese, spagnolo e italiano. Un’atmosfera da sala contrattazioni.
Ho aperto la grossa cartella arancione. Era piena zeppa di documenti, per la maggior parte in inglese. Niente di complicato, a prima vista: ci proponevano di acquistare degli champignon surgelati. Circuito breve, semplice: coltivati e surgelati in Cina, importati da una società olandese e al momento stoccati a Rotterdam. Cinque container in tutto, ossia 80 tonnellate di funghi imballate in scatoloni da 10 chili. I documenti erano perfetti: fattura, certificato d’origine, analisi, tutto a posto. La merce era sdoganata CEE e poteva quindi essere trasportata e venduta ovunque in Europa senza altre formalità.
Un messaggio e-mail precisava che il venditore era pronto a concederci uno sconto… dell’80%! Ovvero tutti e cinque i container al prezzo di uno solo!
Davvero non vedevo dove fosse il problema. Con un prezzo simile avremmo rivenduto facilmente quella merce, e con un ottimo margine. Il venditore doveva proprio essere con le spalle al muro, avere gravi problemi finanziari o enormi giacenze, per acconsentire a un simile sconto. A quel punto aprii una piccola busta che conteneva alcune foto… e tutto si chiarì. Per fortuna ero seduto.
Le foto mostravano alcuni scatoloni aperti e i funghi che contenevano. Blu, erano blu! Alcuni avevano solo delle macchie, come se fossero stati schizzati con dell’inchiostro diluito, altri avevano degli aloni irregolari attorno al cappello, altri ancora erano quasi completamente blu. Un blu piuttosto bello, peraltro, che tendeva al turchese. Era evidente che nessuno avrebbe mai voluto comprare, né tanto meno consumare, degli champignon di un colore così singolare.
«Stai lavorando sui Puffi?»
Alzai la testa.
«Scusa?»
«I funghi blu!» insistette una delle due assistenti, che si era avvicinata e mi guardava con comprensione attraverso le lenti bifocali. «È Van Wrinjk, un olandese, che ce li vuole rivendere. Si è fatto abbindolare da uno dei suoi fornitori cinesi» mi spiegò in tono confidenziale. «Non sa cosa fare della merce e ha paura che in caso di controllo dei servizi sanitari, gli toccherà farla distruggere a sue spese.»
«Be’, non mi stupisce, chi comprerebbe dei funghi blu?»
«Be’, appunto, sei tu che devi trovare chi» rispose lei in tono serissimo. «Abbiamo pensato a dei produttori di zuppe, ma loro prendono solo sottoprodotti ed è già tanto se non dobbiamo regalargli la merce. Abbiamo tutti i contatti, puoi chiamarli, se vuoi.»
«Ma da dove viene questo colore?»
«Non si sa. Solo il produttore cinese potrebbe dirci se ha aggiunto qualche prodotto o usato un certo procedimento, ma da quando Van Wrinjk gli ha chiesto un risarcimento non dà segni di vita. Comunque sia, con i cinesi una volta che si è pagato è troppo tardi, non c’è più nulla da fare. Reclamare non serve a niente, e poi nessuno gli fa causa, lo sanno tutti che è una perdita di tempo e di denaro.»
«Allora, novellino, qualche idea?» esclamò il mio capo fiondandosi nell’ufficio.
«Be’, come avete pensato anche voi, si potrebbero usare per delle minestre passate. La colorazione sembra superficiale e dovrebbe attenuarsi una volta tritati i funghi. Il rischio è che la zuppa si colori leggermente di blu… Ma aggiungendo un altro colorante… del curry o della curcuma…»
«Non ne vale la pena» rispose con una smorfia disgustata piuttosto spaventosa. «I produttori di salse e di minestre sono dei morti di fame, non appena ci vedranno arrivare, vorranno la roba per niente. Non si guadagna un tubo con loro. Tanto vale non concludere l’affare.»
«E poi non sappiamo quale prodotto abbia dato questo colore» feci notare.
«E chi se ne frega!» esclamò con uno sguardo profondamente contrariato, come se avessi appena detto una volgarità. «Non ti chiedo di mangiarli, questi funghi, solo di venderli!»
«Ma se fosse pericoloso?»
«Guarda le analisi nel fascicolo, sono perfette. Non c’è scritto da nessuna parte che non si possono consumare.»
«Sì, certo, ho visto, ma sono solo analisi di routine, nessuno ha cercato veramente quello che non va» insistetti.
«E allora? La conosci, la regola della responsabilità, l’hai imparata a scuola. Uno, non sei il produttore; e due, non sei neanche l’importatore. Se c’è un problema sarà affar loro, la responsabilità legale è loro, non è mica nostra. Siamo solo dei semplici intermediari. Non me ne frega niente di quello che pensi, ti chiedo soltanto di trovare un modo per far sparire quella colorazione, così riusciamo a venderli.»
«Magari potremmo farne un purè? Per i produttori di piatti pronti…» azzardai senza molta convinzione.
«No» rispose lui con sguardo assente grattandosi il mento. «Ho già contattato dei clienti belgi che fanno puree di verdure, ma per i passati di champignon non c’è mercato. È una cosa che non interessa a nessuno. L’ideale sarebbe tenerli interi, sarebbe più facile valorizzarli.»
«E se li facessimo friggere? Magari cotti avranno un colore dorato che maschererà il blu…»
«No» riprese dopo qualche secondo di riflessione. «I cinesi hanno imbottito d’acqua i funghi. Se li si frigge si rattrappiscono e perdono troppo peso. E poi non è sicuro che tutto quel blu scomparirebbe con la cottura.»
«In una salsa o in un ripieno?» proposi.
«No!» ringhiò lui. «Ti ho appena detto che non possiamo scaldarli, sennò pisceranno fuori tutta l’acqua.»
«Be’, se bisogna utilizzarli a freddo, allora perché non impastellarli con la zangola?»
«Spiega.»
«Senza scongelarli, li si riveste per aspersione a freddo con una salsa densa, una pastella o del pangrattato. Poi si congela il prodotto finito, come si fa con la roba fritta.»
«Così non si vedrà più per niente il colore e l’acqua si conserverà tutta all’interno» commentò il capo con un lieve ghigno che tradiva una profonda gioia interiore, un po’ come un credente di fronte all’apparizione della Vergine.
«Sì, e il rivestimento aumenterà il peso con una spesa minima. Una pastella a base di farina, olio e acqua non costa quasi niente. Ma non so proprio chi vorrà comprare degli champignon impanati.»
«Non ti preoccupare» mi rassicurò lui. «Tutto si vende, è solo una questione di prezzo. Ok, facciamo così.»
Nell’arco di una mattina, con qualche telefonata, i funghi cambiarono proprietario. Van Wrinjk pagò persino il trasporto, felice com’era di sbarazzarsi di una merce così problematica. Il prodotto fu mandato in uno stabilimento francese per essere impanato e confezionato in graziose buste di plastica stampate, e infine fu venduto con un buon margine di guadagno a un gruppo di supermercati indipendenti felicissimi di aggiudicarsi un così buon affare.
Tuttavia, mi sentivo diviso. Ero soddisfatto per aver svolto il mio lavoro fornendo una soluzione a un problema della mia impresa. Ma, nello stesso tempo, mi ero reso perfettamente conto che l’Azienda non si faceva scrupoli etici quando c’era di mezzo il business, e che solo e soltanto il fine, il profitto a breve termine, giustificava i mezzi. Cosa ne era della qualità e di tutto quello che mi avevano insegnato i miei genitori e i miei professori? Palesemente qui non era la priorità.
Mi muovevo tra due mondi incompatibili. Da una parte c’era il mio lavoro: l’Azienda, il mio capo e la loro mancanza di valori; dall’altra, la mia vita “normale”: la mia famiglia, i miei amici radical chic e tutti quei discorsi sull’ambiente, levigati e benpensanti. Due universi separati, ognuno con le sue regole e i suoi valori, incapaci di comprendersi.
In seguito non mi è capitato spesso di rivedere degli champignon blu. In compenso mi sono imbattuto con una certa regolarità in partite di funghi che si erano deteriorati per via di un guasto al compressore frigorifero e avevano finito per ossidarsi, diventando più marroni che bianchi, quando non completamente neri. È successo lo stesso anche con altre verdure, per esempio cavolfiori, broccoli e peperoni. In questo caso, il rivestimento a freddo resta la soluzione migliore che abbiamo trovato, e le verdure in pastella si vendono molto bene in Olanda.
Ora, starete pensando che il rivestimento sia un ripiego volto a minimizzare le nostre perdite, e che ricevere un container frigorifero dalla Cina pieno di champignon surgelati il cui compressore ha avuto dei problemi durante il trasporto sia una catastrofe per l’acquirente. Errore! È proprio l’opposto: quel guasto è una benedizione.
Perché mai?
Ma grazie alle assicurazioni, che ovviamente vi rimborseranno il valore della merce rovinata! Sì, perché il trasporto è sempre assicurato! Nel caso di un’avaria verificatasi durante il trasporto e individuata all’arrivo di un container o di un camion, un perito della compagnia di assicurazioni verrà a constatare i danni. Aprendo il container e disimballando qualche scatolone, non potrà fare altro che verificare con voi (è importante essere presenti per spiegargli l’ampiezza della catastrofe) che la partita è inutilizzabile, buona per la pattumiera. E a quel punto non vi resterà che intascare l’assegno, beninteso con la promessa di distruggere la partita in questione… Ah, un’ultima cosa: se qualcuno sa cosa può aver regalato quel bel colore blu agli champignon, mi scriva. Non vorrei morire nell’ignoranza.
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Storielle piccanti con cacca
Può capitare, soprattutto quando si importano prodotti da paesi in cui l’igiene e la cultura della qualità lasciano a desiderare, che i difetti di Miss Mondo non siano di natura semplicemente estetica.
«Abbiamo un problema» mi annunciò il boss con aria abbattuta un mattino al mio arrivo in ufficio.
«Ci siamo fatti fregare da un indiano su un lotto di peperoncino.»
«Qual è il problema, esattamente, capo?»
«Questo» mi disse facendomi rotolare nel cavo della mano una decina di grossi granelli neri, di forma allungata, friabili, di un buon centimetro di lunghezza.
«Che semi sono?»
«Non sono semi, sono escrementi.»
«Escrementi?»
«Abbiamo 100 tonnellate di peperoncino in fiocchi (leggasi peperoncino essiccato in frammenti) che sono stati stoccati male all’origine (leggasi presso il fornitore indiano)» mi spiegò. «Ratti e topolini si sono dati alla pazza gioia. Oltre ad alcuni cadaveri di sorci rinsecchiti, abbiamo trovato peli ed escrementi un po’ dappertutto. Una vera catastrofe.»
«Intendi dire che i ratti hanno sporcato i sacchi?» domandai restituendogli i suoi preziosi escrementi.
«No, è la merce dentro i sacchi che è piena di escrementi di topo.»
«Ma com’è possibile?»
«È colpa di quello stronzo di un indiano, ci ha venduto un lotto andato a male che ha comprato a un prezzo stracciato. Non siamo stati abbastanza prudenti… Io non sono stato abbastanza prudente. Avevamo già fatto alcuni buoni affari, con lui, ci siamo fidati, abbiamo pagato troppo presto, e adesso abbiamo 100 tonnellate di questa merda sul gobbo.»
Adesso capivo meglio la sua preoccupazione. A differenza degli champignon blu, che alla fine non avremmo comprato se non avessimo trovato una soluzione soddisfacente, nel caso del peperoncino l’affare era fatto. Eravamo semplicemente in trappola – il che mandava in bestia il capo – e la merce, pagata da noi, se ne stava tranquillamente in attesa nei nostri magazzini.
Stavolta non potevamo contare sull’assicurazione, per tirarci fuori dai guai: la compagnia non ne voleva sapere. Non c’era stato un guasto durante il trasporto, nessun incidente, e i lotti avariati proditoriamente spediti da un venditore scorretto non erano coperti. Eravamo assicurati contro gli incidenti, non contro le truffe. Che mondo feroce.
Bisognava assolutamente trovare un modo per non buttare via tutto, cosa che ci sarebbe costata il prezzo della merce più le considerevoli spese per il trasporto e la distruzione.
«Questi escrementi non si possono togliere?» azzardai prudentemente.
«Abbiamo già setacciato e ventilato tutto il lotto. Lo stabilimento ci ha lavorato sopra per un’intera settimana. Con i peli è tutto a posto, sono leggeri e li abbiamo tolti quasi tutti. Ma gli escrementi hanno la stessa grandezza e la stessa densità dei semi e dei pezzi più grossi di peperoncino. Toglierli è impossibile. Anche a ripassarli dieci volte, butteremmo via metà dello stock ma ne resterebbero ancora.»
«Allora, se non si possono togliere, siamo spacciati.»
Il capo mi guardò con gli occhi sbarrati, come se avessi bestemmiato sulla Borsa o sputato sul presidente della confindustria.
«Credi che ti paghiamo per arrenderti al minimo problemino?» mi aggredì. «Spremiti le meningi. Mi serve una soluzione. Non se ne parla proprio di buttare 80.000 euro di roba.»
«Ma che cosa possiamo fare se non si possono togliere gli escrementi di topo? Non li faremo mica mangiare ai consumatori?»
«Cosa sono gli escrementi?» mi chiese affondando di colpo lo sguardo nelle profondità più recondite del mio con voce improvvisamente flautata.
«Be’…»
In quel momento, confesso che la domanda mi lasciò un po’ sconcertato e mi mancò la replica.
«Non c’è nessun be’, è una materia estranea, punto e basta.»
Poi, parlando a scatti e articolando lentamente ogni sillaba, come se mi stesse dettando il primo dei dieci comandamenti, aggiunse: «Non è difficile: “Tutto ciò che, propriamente parlando, non è peperoncino è una materia estranea”. E se guardi nel capitolato d’appalto, vedrai che ci è concessa una tolleranza dello 0,5%. Ecco come bisogna ragionare».
La sua logica era inattaccabile. Lui sì che era un vero capo, che non si lasciava abbattere e fronteggiava le avversità con forza e coraggio. Tecnicamente aveva ragione. I nostri capitolati d’appalto non menzionavano esplicitamente gli escrementi di animali e, nel commercio delle materie prime, esiste una certa tolleranza per le contaminazioni ritenute inevitabili; vegetali rotti, polvere, sementi estranee, frammenti di insetti…
«Ok, ok» ripresi io. «Ho capito, non parliamo più di escrementi e di peli, ma di materie estranee. Ma non possiamo lasciare il prodotto così com’è. Gli escrementi sono troppo visibili, ce lo rimanderanno indietro tutti, questo peperoncino.»
«Lo so, ci ho riflettuto a lungo. E se triturassimo tutto per farne del peperoncino in polvere?»
«In teoria è fattibilissimo. Ma per prima cosa bisognerebbe procedere a un trattamento termico per essiccare bene il tutto, e in particolare per decontaminarlo. Non so cosa contengano gli escrementi di topo indiano, ma bisognerebbe evitare di ritrovarci con degli agenti patogeni tipo salmonella o coliformi nel nostro peperoncino. Qualsiasi analisi di routine li rintraccerebbe e, se avvelenassimo un cliente, per noi sarebbe una catastrofe.»
«E quanto costa un procedimento del genere?» si preoccupò, sempre molto pragmatico.
«Circa 20 centesimi al chilo, trasporto, perdite e confezionamento compresi. Forse meno, visto che la partita è consistente.»
«Vada per il trattamento termico: e dopo?»
«Dopo si trita il tutto. Il più finemente possibile: 80, 100 o addirittura 120 mesh1. A 120 mesh, le particelle avranno una misura inferiore al decimo di millimetro. Così si nebulizzano gli escrementi, li si fa scomparire, e lo stesso vale per i peli eventualmente rimasti. Ma il problema è che supereremo sicuramente i limiti di tolleranza per i materiali estranei.»
«Già, e questa cosa salterà fuori con le analisi… A meno che non diluiamo» esclamò lui con un barlume di speranza negli occhi.
«Sì, esatto, dopo la lavorazione bisognerà analizzare la partita e, se le materie estranee sono ancora troppo alte, mischiarla con una partita di peperoncino in polvere di buona qualità.»
«Ti do carta bianca. Fammi sparire questa merda. Essiccazione, trituramento, miscuglio, occupati tu di tutto.»
Trovare un’azienda non troppo scrupolosa per tritare molto finemente il mio peperoncino, con i suoi peli e i suoi escrementi, non mi richiese più di un’ora. Niente è impossibile con un buon indirizzario. In compenso, come temevo, la percentuale di materie estranee salì al di sopra del ragionevole, assolutamente fuori norma, per farla breve. Potevamo dunque utilizzare la partita soltanto mescolandola nella misura del 25% con un prodotto di buona qualità. Ci mettemmo quasi un anno a smaltirla tutta.
Mi piacerebbe potervi dire che questa operazione di “repulisti” è un caso isolato, che in seguito non si è mai più verificato, e che una simile manipolazione oggi è impossibile, ma ci è successo a numerosissime riprese di ricevere partite di spezie dalla Turchia e dall’Egitto contenenti sterco di uccelli, o di pepe dall’India e dalla Cina sempre con escrementi di topo, mozziconi di sigarette e svariati altri rifiuti. Certe partite che avevamo rifiutato di acquistare, tanto erano sporche, ci sono persino state riproposte da venditori indiani, cinesi o di altre nazionalità, dopo essere state triturate, trattate e diluite per essere conformi alle norme…
Personalmente, da allora non consumo più alcun tipo di spezie in polvere.
1. Il mesh è un’unità americana di misura delle maglie da vaglio. Più il valore in mesh è elevato, più le maglie sono strette e più la polvere dovrà essere sottile per passarci attraverso.
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Rosso come un pomodoro?
A quelli tra voi che non conoscono lo Xinjiang posso solo dire che sono fortunati, perché è sicuramente l’angolo più squallido di tutta la Cina. Il tipo di posto che induce alla nostalgia e istiga al suicidio.
Lo Xinjiang dista più di 3.000 chilometri da Pechino e confina con la Mongolia e il Kazakistan. È un’immensa pianura polverosa che si estende a perdita d’occhio e la cui monotonia è interrotta di tanto in tanto solo da un sudicio villaggio o da una fabbrica dall’aspetto sinistro che sputa fuori larghi pennacchi di fumo bianco. La regione mi interessa proprio per via di queste fabbriche. Sì, perché il pomodoro industriale lo fanno qui, nello Xinjiang.
Durante la raccolta dei pomodori, da fine luglio a fine settembre, file ininterrotte di vecchi camion fanno incessantemente la spola tra gli stabilimenti e i campi. La regione produce ogni anno più di cinque milioni di tonnellate di pomodori destinati alla trasformazione e all’export. I cinesi consumano poco concentrato di pomodoro: la pizza e le lasagne al ragù di cavallo non sono ancora entrate nelle loro abitudini, anche se le abitudini cambiano in fretta.
Le numerose fabbriche disseminate per la campagna appartengono a tre conglomerati controllati dallo stato e dall’esercito popolare. Wang, il responsabile del nostro ufficio cinese, mi aveva spiegato che, all’epoca delle tensioni con l’Unione Sovietica, tre milioni di soldati erano stati ammassati in questa regione desertica con il compito di mettere in sicurezza la frontiera. Quando i rischi di un conflitto si sono allontanati, lo stato “democratico” cinese ha giudicato più utile destinare i soldati semplici allo sviluppo della regione piuttosto che rimandarli a fare i disoccupati a casa loro. È così che interi reggimenti – in senso letterale – coltivano, trasportano e trasformano il pomodoro a beneficio di pochi generali e di qualche dirigente corrotto (scusate il pleonasmo) del Partito comunista.
Alcuni anni fa, compravo per conto dell’Azienda il pomodoro concentrato dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, ma poi sono arrivati i cinesi e hanno fatto man bassa di tutti i mercati con prodotti di bassa qualità, certo, ma dai prezzi parecchio inferiori. Eh sì, di nuovo.
Non bisogna illudersi. I cinesi sanno contare perfettamente, ma nel paese di Mao il costo di produzione non conta.
La Cina è una dittatura con un’economia dirigista, e il prezzo non ha importanza. L’obiettivo principale è di far entrare della valuta, e secondariamente di dare lavoro a una popolazione che aumenta di dieci milioni di individui all’anno. Vedete bene che, con i nostri sei milioni di disoccupati e simili, facciamo ridere.
La strategia cinese è semplice: innanzitutto mirare ai mercati mondiali che hanno bisogno di una mano d’opera considerevole, poi prendere come riferimento il prezzo mondiale e offrire un prodotto equivalente a un prezzo dal 10 al 20% meno caro. Chi può resistere a una simile offerta? Semplice, agevole ed efficace.
Così la Cina ha inondato il pianeta di champignon in scatola, pomodoro concentrato, vasetti di asparagi, aglio, succo di mela, pere sciroppate, fagiolini surgelati, cavolfiori, funghi porcini e spugnole… Tutti prodotti che i cinesi non consumano, o consumano poco.
Cito solo i prodotti alimentari, ma è lo stesso per tutti i manufatti, dagli orologi alle magliette e ai farmaci; l’obbiettivo è uno solo: esportare e far entrare valuta.
Ci si può anche dire che in fondo è la legge del mercato, la giusta e leale libera concorrenza, se non fosse che, nel caso del nostro pomodoro concentrato dello Xinjiang, i dipendenti-soldati sono pagati (pochissimo) dallo stato e il trasporto per 3.000 chilometri, dalla zona di produzione fino al porto, è anch’esso a carico dello stato e non viene inserito nei costi di produzione. Comunque sia, lo ripeto, tutto questo non ha nessuna importanza: il prezzo cinese è il prezzo mondiale meno il 20%!
Poi, con le valute accumulate, i cinesi possono comprare le aziende europee moribonde che, com’è ovvio, non possono lottare contro questo dumping perfettamente organizzato. È così che il leader francese del pomodoro concentrato, Le Cabanon, è stato rilevato nel 2004 dalla Xinjiang Chalkis Co. Ltd, un’impresa diretta dal generale Liu Yi e che ha sede a Urumqi, la capitale della regione.
Per la mia azienda è del tutto indifferente che il prodotto sia cinese o francese. Si fanno affari e si guadagna qualunque sia l’origine del prodotto.
Anche per i nostri clienti, industriali e supermercati, contano solo il prezzo e una qualità che sia visivamente accettabile. E questo è precisamente il nostro problema del momento.
Da qualche settimana, riceviamo interi container di fusti da 220 chili di pomodoro concentrato che il mio capo definisce “merda”, quando non “grossa merda”, anche se alla fin fine non è poi così tremendo. Il concentrato è più bruno che rosso e ha un gusto sorprendente, tra il pomodoro ammuffito e il ketchup bruciato. Al microscopio, risulta pieno di tracce di lieviti e di muffe, con punti neri la cui origine non si riesce a identificare con precisione. Evidentemente è stato fatto con pomodori ammuffiti e scaldati al massimo per eliminare più tracce possibile. Sfortunatamente, il colore e il sapore sono un calcio sui denti. Per giunta, alcuni fusti si gonfiano a causa di una fermentazione interna del concentrato e finiscono per esplodere, proiettando nel magazzino dei getti sanguinolenti davvero artistici. Tanto che i magazzinieri si rifiutano di maneggiare i fusti per paura di vederseli esplodere in faccia o di finire decapitati dall’espulsione di un coperchio di metallo.
Intendiamoci bene: non è perché la merce è di cattiva qualità che siamo scontenti. Se non dormiamo sonni tranquilli è per averla pagata troppo cara! Perché, anche per questi concentrati di pomodori marci, c’è un prezzo di mercato e uno di sbocco. O, più esattamente, un prezzo e dei mercati. Ma pazienza.
Il nostro “partner” cinese è uno dei tre grandi conglomerati. Veniamo ricevuti da una notevole sfilza di responsabili, almeno una decina, il direttore della fabbrica, il responsabile della produzione, il responsabile commerciale, il responsabile dell’export, il responsabile della qualità, il responsabile delle colture, della logistica, e da altri irresponsabili di un po’ tutto e di un po’ niente. Tutti sono di una cortesia perfetta, ci stringiamo la mano, ci ringraziamo a vicenda, chi per l’accoglienza, chi per la bella idea di essere passati a salutare, e tutto questo piccolo mondo si reca a visitare una fabbrica modello.
Le installazioni sono impressionanti: uno stabilimento interamente pilotato tramite computer e con attrezzatura italiana Rossi & Catelli, tutta in acciaio inox di ultima generazione. Ce n’è a sufficienza per trattare senza problemi 50.000 tonnellate di pomodori freschi in meno di due mesi, il tempo di durata della raccolta. Wang mi spiega che le fabbriche sono state equipaggiate da industriali italiani che si fanno pagare in concentrato, una specie di moderno baratto che conviene a tutti.
Beninteso, i pomodori freschi che vengono consegnati qui sono perfetti, e il prodotto che ne viene ricavato è di ottima qualità, niente a che vedere con la cacca bruna che ci hanno mandato nelle ultime settimane.
La discussione che segue si tiene tra un gruppo molto più ristretto; il responsabile dell’export, il responsabile che segue la nostra azienda e da cui acquistiamo i lotti, Wang e io. Comincio col disporre sul tavolo una decina di magnifiche foto. In alcune si vedono dei fusti esplosi, con il loro marchio, e tracce di spruzzi color sangue secco sui muri; in altre, i fusti sono deformati come mongolfiere appena prima dell’esplosione; per finire, sulle ultime, dei fusti aperti di concentrato molto rosso e altri di concentrato bruno sono ripresi fianco a fianco per mostrare bene il contrasto.
Resto un attimo in silenzio per permettere ai padroni di casa di apprezzare i miei talenti di fotografo. Discutono tra loro in cinese, tranquillamente, come se tutto quanto, in fondo, fosse nell’ordine naturale delle cose.
«Cosa ne pensate?» dico in inglese guardando il direttore dritto negli occhi.
«Siete stati sfortunati, questo stock doveva partire per l’Africa, e l’abbiamo mandato in Europa per sbaglio. È increscioso.»
«In questo caso, vi chiedo di rimborsarci tutti i fusti esplosi e una compensazione di 0,40 dollari USA al chilo per il resto, in modo che possiamo coprire le nostre spese.
«D’accordo per i fusti rovinati, ma per quanto riguarda i 40 centesimi, non è possibile. Per questa faccenda perdiamo già molto denaro.»
Ah, il famoso “perdiamo già molto denaro”. Quanto suonano false queste parole! Quante volte le ho sentite? Decine? Di più? È come se chi vi dice questa enormità confessasse chiaramente che sta facendo un mucchio di soldi fregandovi.
«In questo caso,» dico io con calma e con il sorriso sulle labbra «mi rimborsate e vi riprendete la merce per mandarla in Africa. Ma non sono sicuro che ne ricaverete un prezzo migliore, neanche laggiù.»
Li lascio discutere tranquillamente in cinese mentre sorseggio un tè verde sicuramente più ricco di pesticidi che di sapore. Non c’è alcuna animosità tra noi. Era chiaro per tutti che si sarebbe trovato in fretta un accordo favorevole a entrambe le parti.
«Facciamo 20 centesimi» propone con calma il direttore.
«30, e per dimostrarvi la nostra buona volontà vi prendiamo altre 500 tonnellate della stessa qualità a questo prezzo.»
So che la proposta susciterà il loro interesse. Se insistono tanto per lasciarmi il loro concentrato marrone, è perché i loro magazzini ne sono pieni.
Nuove discussioni in cinese. Il direttore ogni tanto mi lancia un’occhiata per essere sicuro che non stia scherzando.
«D’accordo, ma ne prendete 1.000 tonnellate» esclama alla fine.
Rimango in silenzio qualche secondo per fare quello che riflette. Corrugo le sopracciglia per mostrare che non è una decisione facile, guardo il pavimento, il soffitto. Cerco di sembrare seccato. Ma siccome quelle 1.000 tonnellate le voglio comunque, e avrei accettato anche i 20 centesimi, alla fine do il mio consenso.
«Vada per i 30 centesimi in meno al chilo, 500 tonnellate subito e altre 500 da prendere entro sei mesi.»
Ci stringiamo la mano, tutti quanti sono entusiasti dell’accordo che abbiamo negoziato. Il commercio internazionale non è poi così complicato.
Il mio compito qui è finito, abbrevio la visita e mi rimetto in viaggio con Wang in direzione dell’aeroporto.
Dopo qualche chilometro, passiamo davanti a un’altra fabbrica del gruppo. Una lunga fila di almeno trenta o quaranta camion con cassoni pieni fino all’orlo di pomodori freschi preme davanti ai cancelli chiusi della fabbrica. I motori sono spenti e gli autisti discutono tra loro, seduti o sdraiati all’ombra dei veicoli. Ci fermiamo, e Wang si mette a parlare con loro.
L’odore acido dei frutti è molto forte, vedo piccoli rivoli di succo di pomodoro color giallo chiaro colare dagli interstizi dei cassoni di metallo e spandersi in ampie pozze sul terreno polveroso.
Dopo qualche minuto ci rimettiamo in marcia. Wang mi spiega: «Questa fabbrica ha molti problemi, ci sono guasti continui. Gli autisti devono aspettare per ore prima di scaricare. Sotto il sole, nei cassoni metallici riempiti con 20 tonnellate, i pomodori fermentano».
Adesso so da dove viene il mio concentrato marrone di pomodori marci.
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Capitolo 15
Il paese dove scorrono latte alla melammina e miele adulterato
Ogni mattina partecipo attivamente, insieme a qualche milione di francesi, a un rituale instaurato in tempi antichi, ma sempre d’attualità: gli ingorghi. Quindi mi ci vuole più di un’ora per arrivare in ufficio. Così, per passare il tempo, ascolto distrattamente la radio: Rires et Chansons o France Info, a seconda dell’umore.
«Oggi è il 18 maggio 2013 e siete all’ascolto di France Info… I consumatori francesi sarebbero sorpresi di sapere che più del 10% del miele commercializzato in Francia è contraffatto…»
To’, solo il 10%? Personalmente avrei detto di più, si vede che non hanno visto tutto quello che ho visto io.
«Secondo una recente inchiesta del CETAM (Centro di studi tecnici apistici della Mosella), che ha analizzato centinaia di campioni in tutta la Francia…»
Ah, non conosco questo ente. Però ha l’aria di essere meno inetto degli altri.
«…almeno un vasetto su dieci è adulterato! Oggi, nel vostro supermercato preferito… Secondo l’inchiesta, questo miele contraffatto proverrebbe essenzialmente dalla Cina…»
Oh, che rivelazione!
Maggio 2013, mica i tempi dell’uomo di Cro-Magnon, e stiamo parlando di più del 10%. Chi mai avrà il coraggio di dire che sono aneddoti senza fondamento?
Di più. Secondo uno studio della rivista mensile «Que choisir» del settembre 2014, che ha utilizzato i metodi di analisi più moderni ed è stato ripreso da «Le Canard enchaîné» di mercoledì 1° ottobre 2014, in realtà i vasetti di miele adulterato sarebbero almeno il 30%.
Questo “miele” cinese, lo conosco bene. Ne ho importate decine di container, migliaia di tonnellate racchiuse in fusti metallici da 200 chili. E non soltanto dalla Cina: anche dal Vietnam, dalla Turchia e da altri paesi considerati a basso costo.
Se si importa tanto da questi paesi, persino molto più di quello che vi si produce realmente, è soltanto per via del prezzo. Si potrebbe incoraggiare la produzione locale o ci si potrebbe orientare verso luoghi di produzione qualitativamente superiori; si trova molto di meglio in Australia e in Nuova Zelanda, in America centrale e in Sudamerica. Ma è più caro. Eh già, sorpresa: la qualità si paga!
Eppure, in Cina come altrove, e forse in Cina più che altrove, a causa dei catastrofici livelli di inquina mento e dell’uso massiccio di pesticidi, le api stanno scomparendo. A dimostrazione di ciò, un articolo del 23 aprile 2014 apparso su «Le Monde» e intitolato Nel Sichuan “uomini ape” impollinano a mano i frutteti, spiega molto bene come, in seguito alla scomparsa delle api, i contadini della regione debbano fare il lavoro degli insetti che essi hanno sterminato. Appollaiati sui rami dei loro meli, si armano di bastoni alla cui estremità sono fissati filtri di sigarette o punte di pennarelli e, con l’aiuto di questo strumento rudimentale, depongono meccanicamente sui fiori – che più tardi daranno i frutti – il polline raccolto in precedenza e che portano appeso al collo in una scatoletta di gomme da masticare.
Allora, mi direte voi, com’è possibile che questo paese, che sta assistendo alla sparizione delle sue api, sia diventato il primo produttore ed esportatore mondiale di “miele”, con oltre 300.000 tonnellate all’anno?
Be’, il perché è molto semplice: frodare sul miele è estremamente facile.
Ma attenzione: se non si vuole che si veda troppo, bisogna farlo con intelligenza. Ora, i cinesi non sono stupidi, e imparano in fretta.
All’inizio, hanno cominciato a tagliare il miele con un po’ d’acqua. Siccome il miele è un antibiotico naturale, può contenere fino al 18% di acqua senza alterarsi. Ma qualcuno, troppo avido, ha esagerato col rubinetto e alcune partite di miele hanno iniziato a fermentare durante il trasporto. Vero è che può fare caldo nei container ammassati sotto il sole di Shanghai.
La soluzione quindi è stata quella di aggiungere una bella dose di antibiotici di sintesi, che stabilizzano il prodotto e sono gradevoli al palato del cliente, ma vanno consumati con moderazione. Risultato: nel 2002 il miele cinese, più dopato di un vincitore del Tour de France, è stato messo al bando in Europa.
Ma il bando non è durato a lungo. Nel 2004 le importazioni sono ricominciate ed è iniziata così la seconda fase della gloriosa epopea del miele cinese.
Il miele è essenzialmente zucchero o, più precisamente, una serie di zuccheri: principalmente fruttosio (intorno al 40%) e glucosio (30% circa). I nostri amici cinesi hanno dunque aggiunto con discrezione quelli che gli addetti ai lavori chiamano “zuccheri esogeni”, ovvero, in parole povere, che non hanno nulla a che fare col miele. Da bravi commercianti ansiosi di fare soldi, hanno cominciato con l’aggiungere lo zucchero industriale meno caro, lo sciroppo di glucosio liquido ottenuto a partire dal mais o dal frumento (costa 50 centesimi al chilo, mentre il miele di bassa gamma vale molto più del doppio).
Ma una proporzione troppo alta di glucosio provoca una cristallizzazione accelerata del miele. Beninteso, i clienti si sono accorti abbastanza in fretta che in quel miele c’era troppo glucosio rispetto al fruttosio. Ah, maledette analisi!
I cinesi hanno reagito prontamente aggiungendo del fruttosio liquido di cereali per rispettare la proporzione naturale e migliorare la conservazione, così che il tutto è diventato molto più difficile da controllare.
A questo punto, per troppa avidità, i cinesi hanno compiuto un altro passo falso esagerando di nuovo con le dosi. Allora i clienti hanno incominciato a guardare meglio e a conteggiare i granuli pollinici presenti nel miele. E… Oh… sorpresa! Spesso di polline non ce n’era neanche l’ombra! Il “miele”, in realtà, non era altro che una mistura artificiale di sciroppi di glucosio e di fruttosio industriali colorata con il caramello e ingegnosamente aromatizzata.
Smascherati ancora una volta, i cinesi non si sono lasciati abbattere e hanno messo in atto la fase tre: l’aggiunta controllata di polline.
Oggi, alcune società cinesi (ma non solo) fabbricano “miele” come si fa con qualsiasi altro prodotto industriale. Se la frode è fatta in modo intelligente, vale a dire rispettando le proporzioni glucosio/fruttosio naturale e aggiungendo la giusta dose di polline, il colorante e l’aroma adatto, è praticamente impossibile da rilevare. Dei laboratori perfettamente equipaggiati di strumenti d’analisi all’ultimo grido, manovrati da esperti, preparano ricette ed effettuano i test dei loro clienti e dei servizi sanitari per garantire che tutto vada bene. E tutto va benissimo. La frode non riguarda il 10% del miele, in realtà la percentuale è molto più alta, credetemi.
E non vi parlo delle bugie sulle origini: miele di Francia che contiene polline di tè o di cotone, esportazioni di miele d’acacia “ungherese” superiori alla produzione totale del paese…
E gli “errori” sulle denominazioni floreali? Miele di lavanda con meno del 30% di polline di lavanda, miele di trifoglio contenente soprattutto colza…
Il mio consiglio, se volete concedervi il piacere di un miele di qualità: compratene uno che non venga dall’altra parte del mondo, fuggite come la peste i primi prezzi, che per dello sciroppo di glucosio colorato sono già fin troppo alti, ed evitate le miscele dubbie senza un’origine chiara.
Ancora una cosa: è inutile cercare di stanare il miele cinese, per la semplice e buona ragione che non lo troverete! Si nasconde sotto termini vaghi come: EXTRA UE. Stranamente, nessuno mette in risalto questa origine.
Per quanto mi riguarda, in qualità di professionista del commercio di miele, non posso lamentarmi della Cina. Il fatto che qualche anno fa mi sia toccato distruggere due container contenenti una quantità di antibiotici tale da poter curare i tubercolotici di un intero sanatorio rimane una bazzecola irrilevante, rispetto ai profitti generati. I cinesi non dipendono dalle api o dalla meteorologia, per fare il miele. Perciò possono produrne grandi quantità e praticare prezzi che nessuno al mondo può battere.
Certo, la qualità del prodotto è mediocre, quando non decisamente scadente, ma la cosa non disturba nessuno. C’è un mercato per questo.
Potrei anche parlarvi delle vecchie batterie per auto che trovavamo ogni tanto in fondo ai fusti per aumentarne il peso, delle sostanze di cui vedevamo le tracce al microscopio ma che non siamo mai riusciti a identificare, o delle particelle di ruggine visibili a occhio nudo. Ma è così incredibilmente economico che i clienti tornano a chiedercelo. Cosa importa se questo miele ha uno strano sapore di lievito o di alcol perché è stato pastorizzato dopo aver fermentato? Cosa importa se contiene una certa quantità di ossidi di ferro provenienti da imballaggi non alimentari e se sul fondo della vostra tazza si forma un deposito nerastro quando lo usate per zuccherare il tè? Cosa importano gli antibiotici, il gusto sgradevole e la mancanza di piacere? Costa poco!
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Capitolo 16
Sulle tracce del pepe esausto
È stato grazie alla faccenda del peperoncino che sono stato nominato responsabile del settore spezie. Ero responsabile della compravendita di migliaia di tonnellate di pepe, noce moscata e cannella provenienti da ogni angolo del mondo. Viaggiavo in paesi esotici alla ricerca di stock interessanti e di nuovi partner commerciali.
Ogni tre mesi, tutti i responsabili di un settore dell’Azienda dovevano sottoporsi all’esercizio del “gran varietà”. Uno dopo l’altro, presentavamo i nostri risultati del trimestre (oggi si dice quarter) alla direzione e agli altri responsabili. Ognuno giustificava le proprie scelte, esponeva la sua strategia, rispondeva alle eventuali domande e subiva critiche o persino rimproveri. I miei risultati erano piuttosto onorevoli, e non temevo particolarmente quell’esercizio. Era una semplice formalità. Ma non avevo fatto i conti con il mio capo e con la sua sete di performance.
«È fiacco, non avanza abbastanza in fretta» attaccò lui a testa bassa ancora prima che io finissi la mia breve presentazione.
«Da quando ho preso le spezie abbiamo fatto sensibili progressi, sia come volume sia come valore» mi difesi.
«Storie! Siamo appena sopra la progressione naturale del mercato. C’è poco da vantarsi quando si avanza del 10%, se tutti fanno lo stesso. Non si vince il Tour de France restando nel gruppo. Voglio di meglio, molto di meglio. Cosa proponi per migliorare la nostra performance sul mercato?»
Tutti quanti avevano gli occhi puntati su di me, in un pesante silenzio.
«Dovremmo andare verso prodotti più trasformati, con più valore aggiunto. Alcuni concorrenti stanno già andando in questa direzione.»
«E per superare questi concorrenti? Che strategie possiamo adottare?» insistette.
Avevo l’impressione che volesse portarmi davanti a tutti verso una conclusione che lui aveva già in testa ben prima di quella riunione. Non c’erano scappatoie e cominciavo a trovare particolarmente inquietante la sua allusione al Tour de France.
«Per conquistare rapidamente e con agio delle quote di mercato c’è solo una leva» risposi chiedendomi dove volesse davvero arrivare.
«Il prezzo, è ovvio. Allora come facciamo ad abbassare i prezzi senza sacrificare il nostro margine? Come possiamo essere più furbi degli altri? Quali stratagemmi ci proponi?»
Cominciavo a capire e, per attitudine o per debolezza, o verosimilmente per entrambe, mi lasciai trascinare sulla strada che aveva aperto.
«Ogni tanto mi propongono delle bacche abortite o degli scarti, ma…»
«Prendiamo l’esempio del pepe» mi interruppe lui non appena ebbi articolato il mio “ma”. «È il tuo prodotto più grosso. Cosa si può fare in concreto?»
«Possiamo comprare, per esempio in India, delle bacche di pepe abortite. Quelle che chiamano pinheads.»
«Sono molto meno care?»
«È facile che costino anche la metà, ma praticamente non hanno sapore e non sono piccanti.»
«È comunque pepe» fece notare il direttore finanziario, che non mi rivolgeva mai la parola quando lo incrociavo nei corridoi, preferendo tenere in serbo la sua lingua bavosa per le Weston in vernice dell’amministratore delegato.
«È una parte della pianta, sì» spiegai «ma tecnicamente non è pepe perché non ne possiede tutte le caratteristiche, fondamentalmente per via dell’assenza di piperina, l’olio essenziale caratteristico del pepe.»
«E se si mischiassero delle bacche abortite con del vero pepe?» domandò il mio capo, che non perdeva il filo.
«In questo caso» risposi «bisognerebbe tritare tutto, perché le bacche abortite sono molto piccole, più leggere e scolorite. Così otterremmo del pepe in polvere, con un sapore meno forte, povero in olio essenziale, di un grigio un po’ più chiaro.»
«E molto meno caro» rilanciò il direttore finanziario.
«E le analisi?» chiese il mio capo, che da vero professionista del campo andava all’essenziale.
«Con un pepe non troppo vecchio, che abbia un buon tenore di piperina, se lo mischiamo al 20% o forse al 30% al massimo, dovremmo restare nella norma.»
«Esistono altre soluzioni per far abbassare ulteriormente il prezzo del pepe?» domandò il direttore finanziario.
«Mi hanno proposto anche del pepe esausto, è dieci volte meno caro del pepe vero, e anche della sansa di olive… Ma arrivare fino a questo punto mi sembra pericoloso.»
«Il pepe esausto? Si spieghi meglio!» ordinò il direttore generale.
«Si tratta del residuo del pepe dopo l’estrazione tramite solventi del suo olio essenziale. In un certo senso, possiamo paragonarlo ai fondi di caffè. Come nel caso dei pinheads, lo si potrebbe mischiare, forse al 10% o al 20%, con del pepe nero e restare comunque nella norma. Ma, con i residui d’estrazione, c’è il rischio di trovare tracce dei solventi chimici utilizzati, come l’esano, che con il vero pepe non dovrebbero avere niente a che fare.»
«E la sansa di olive?»
Il mio capo era trascinato dalla prospettiva di essere ancora più furbo dei più furbi tra i nostri concorrenti.
«È quello che resta dopo l’estrazione tramite solventi delle ultime gocce di olio d’oliva, in Spagna non costa quasi niente, in genere si usa come combustibile. Ma sembra che qualcuno ne metta un po’ nel pepe in polvere. Solo che, siccome non proviene dalla pianta
del pepe, è più facile da rilevare. E anche in questo caso, a cercarli, si rischia di trovarci dei solventi.»
«Grazie per queste spiegazioni, ha molto lavoro da fare» concluse il direttore generale.
Il giorno dopo, mandavo in India il mio primo ordine d’acquisto per un intero container di pinheads. Il mio fornitore me lo fatturava con l’appellativo di light pepper berries o “pepe leggero”. I pinheads e il pepe intero venivano poi miscelati e tritati in Europa: in Spagna, in Francia o in Germania. Questo ci ha permesso di far diminuire sensibilmente il prezzo del nostro pepe macinato, e anche il suo sapore.
Di lì a poco, anche questa trovata si rivelò insufficiente. I nostri concorrenti avevano reagito con le stesse armi. Perciò abbiamo cominciato a importare pepe esausto. Sfortunatamente questo “pepe” conteneva tracce di esano e noi eravamo in balia di un’analisi che presto o tardi lo avrebbe rilevato. Per fortuna hanno fatto la loro comparsa delle nuove tecniche di estrazione. Adesso era possibile estrarre l’olio essenziale di pepe con l’anidride carbonica liquida, che non lasciava alcuna traccia. Una benedizione.
Ma anche questo diventò troppo costoso, così mi fu chiesto di acquistare in Spagna qualche lotto di sansa, ufficialmente per “pulire le macchine”.
Poi, un giorno, tutto questo è diventato troppo costoso e troppo complicato, allora abbiamo cominciato a importare direttamente il nostro “pepe” macinato dall’India senza sapere bene come venisse fabbricato, ma sempre con analisi perfettamente conformi. Infine siamo passati a comprare dalla Cina e dal Vietnam un pepe in polvere grigio chiaro, senza sapore, per nulla piccante, ma a un prezzo imbattibile.
Tutto questo mi aveva lasciato esausto.
Il colmo è che questi “miglioramenti tecnici” sono sfociati nel paradosso per cui il pepe in grani interi ha finito per costare sensibilmente di più rispetto al pepe macinato.
Ora, io non ho mai visto la pianta del pepe produrre direttamente del pepe in polvere – anche se con gli OGM tutto sembra possibile… Dunque capite bene che, a rigor di logica, per fare la polvere bisogna incontestabilmente triturare un prodotto intero. Considerate le perdite e il lavoro supplementare: in teoria non può che costare più del prodotto intero di partenza. Eppure i nostri clienti – industriali, commercianti all’ingrosso e supermercati – sono sempre stati ben attenti a non fare domande su questo strano fenomeno, preferendo dirottare i loro acquisti dai prodotti interi, più cari, alle più economiche polveri. E la qualità e il sapore? Non lo so, non mi hanno mai chiesto niente in proposito fintantoché restavamo entro i limiti stabiliti per legge. Al limite, ma dentro.
Il nostro “pepe” era così ben piazzato, come prezzo, che ne vendevamo migliaia di tonnellate all’anno in tutta Europa, senza contare l’export, essenzialmente verso l’Africa, poco attenta alla qualità, visto che il prezzo era basso. Quanto a me, non avevo tempo di provare sentimenti, anche se mi irritavo quando, al ristorante con la bistecca o in aereo con il succo di pomodoro, mi servivano un pepe completamente insipido.
Non si mangiano tonnellate di pepe ogni giorno, mi direte voi. Ma non bisogna credere che solo il pepe sia esausto. No, no, no. La stessa cosa succede con tutti i tipi di spezie: cumino, chiodi di garofano, noce moscata, anice… e non solo. L’India ha fatto dell’estrazione degli oli essenziali una sua specialità, quindi logicamente è lì che l’Azienda faceva i suoi affari, a prezzi che sfidavano ogni concorrenza.
Magari, ingenuamente, penserete che queste siano pratiche marginali, casi isolati. Spiacente, ma vi state sbagliando di nuovo. Sappiate che, per esempio, società assai note in Spagna, nella regione della Murcia, sono specializzate nella produzione di peperoncino dolce (o paprika), a partire dai residui d’estrazione. Vale a dire di peperoncino dolce il cui olio essenziale (l’oleoresina capsicum) è stato estratto tramite solventi. È quest’olio che dà il suo colore caratteristico al chorizo. Conosco perfettamente la faccenda, ho comprato centinaia di tonnellate di quella porcheria, che mettevamo in piccole boccette di vetro o in graziose scatoline di metallo serigrafate e che i supermercati vendevano con margini del 100%.
Volumi considerevoli di prodotti esausti vengono esportati, alla luce del sole, in modo perfettamente legale. La prossima volta che andrete nel vostro supermercato di fiducia (o dal vostro distributore di surgelati di fiducia), fate un giro nel reparto dei semifreddi e guardate la composizione di certi gelati alla vaniglia. Scritto in piccolissimo, leggerete: “Baccello di vaniglia esausto, aroma, colorante”. Ebbene sì, voi credete che quel bel gelato alla vaniglia, di un bel color panna, con i puntini neri dentro, sia stato fatto con della buona vaniglia in baccelli, tuffata nel latte ribollente perché gli aromi delicati profumino la preparazione, e che il tutto sia stato mescolato con amore alla maniera tradizionale dalle mani esperte di una lattaia del XVII secolo. Dovete smetterla di sognare davanti alle pubblicità in tv, cari miei.
La vaniglia esausta serve da “marcatore visivo” (tradotto: astuzia affinché sembri attraente, genuino, autentico). In realtà il gelato è un insieme di acqua, latte in polvere, aroma artificiale prodotto a partire da residui di pasta di carta, vaniglia esausta all’esano
(solvente neurotossico e potenzialmente cancerogeno), colorante caramello E150d (zuccheri scaldati in presenza di solfito ammoniacale, potenzialmente cancerogeno e da evitare se si è sensibili ai solfiti) e altri additivi. Trattandosi di un prodotto destinato principalmente ai bambini, dico: «Complimenti!». Bisognava osare.
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Come promesso tempo fa, qui vorrei postare un intero libro un bet seller si tratta Christophe Brusset che ha lavorato per diversi anni nell'industria agroalimentare come dirigente di alto livello per importanti aziende del settore. Nel 2016 ha pubblicato Siete pazzi a mangiarlo!, questolibro è andato a ruba per i suoi contenuti veritieri e senza peli sulla lingua. Si tratta di cibo che compriamo nei supermercati, negozi, al mercato, in varie forme di confezione scatolette, barattoli, buste ecc.ecc.. ci spiga cosa mangiamo ovvero il cibo Spazzatura nei minimi dettagli cosa contiene e come viene fatto, lavorato e confezionato, Cose che minimamente ci sogneremmo di trovare nel Cibo, Vi dico già in partenza che è molto lungo pertanto lo dividerò in vari parti e capitoli così sarà più facile e rilassante da leggere.
Sempre sè.... @Baptiste mi dà L' OK !
Buona Lettura