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Siete pazzi a mangiarlo !
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Capitolo 27
Marmellata di fragole senza fragole!
Stamattina, assetto di combattimento: riunione di crisi! Ah, l’esaltazione delle riunioni di crisi… Succede a volte, quando un mercato sale o scende brutalmente, senza che nessuno, almeno da noi, l’abbia previsto. Le cause? Possono essere di qualunque tipo: una guerra, uno sciopero, una catastrofe climatica, un nuovo vincolo regolamentare o… proprio nessuna. Nel caso di cui ci dobbiamo occupare, è solo il risultato di una manovra speculativa abilmente orchestrata da qualcuno.
Per le società come la nostra, i movimenti importanti delle quotazioni sono nello stesso tempo un’opportunità e una minaccia. Per semplificare, per prima cosa non bisogna svendere i nostri stock se i prezzi lievitano, e non bisogna accumularne se scendono in picchiata: visto che tutti tendono a fare lo stesso, queste prese di posizione non fanno altro che accentuare la tendenza.
Quando si verifica una fortuna inaspettata, i prezzi al rialzo permettono di fare un repulisti nelle giacenze, perché i clienti sono più che mai alla ricerca di lotti non cari per proteggere i loro margini. All’improvviso diventano molto meno scrupolosi. Il risultato è che, in periodo di crisi, i prodotti sono molto più cari e, paradossalmente, la qualità si degrada. Per riassumere, più costoso e meno buono.
«Siamo nei guai con le mandorle!» annunciò il boss con tono teatrale. «La raccolta non è andata bene, il clima troppo freddo, le api decimate dai pesticidi, e quei coglioni dei cinesi che si mettono a mangiarle come pazzi. Ma, soprattutto, i più grossi esportatori della California hanno annunciato che limiteranno le loro esportazioni.»
A questo punto bisogna capire cosa vuole dire il boss: nessun incendio in vista, ma i prezzi delle mandorle saliranno pericolosamente. È increscioso, perché siamo un intermediario relativamente grosso, sul mercato, e siccome è un prodotto già caro in tempi normali, abbiamo poche scorte per non immobilizzare troppa liquidità.
«Comprate tutto quello che riuscite a trovare da qui a stasera» continuò. «E soprattutto vigilate sulle vostre posizioni.»
Con questo, intende dire che bisogna fare attenzione affinché i nostri fornitori onorino davvero i loro contratti. Con i cinesi, gli indiani e gli olandesi, infatti, succede di frequente, quando non sistematicamente, che le merci non vengano consegnate quando i prezzi lievitano. Per loro ogni pretesto è buono per non rispettare gli impegni presi, e allora non bisogna esitare a supplicarli prima e a minacciarli delle peggiori rappresaglie dopo. Ma, riguardo alle mandorle, siamo fortunati: i principali produttori sono negli Stati Uniti, principalmente in California, e anche in Spagna (sebbene in misura minore), paesi dove le persone tendono a mantenere la parola. Non mi chiedete perché la parola di un americano valga più di quella di un olandese, non ne ho idea, è solo una constatazione frutto di esperienze personali pagate a caro prezzo.
Alla fine della riunione, tutti si alzarono come un sol uomo per tornare rapidamente al proprio lavoro. Sembravamo una squadra di pompieri sul luogo di un incendio. Ma, proprio quando stavo per uscire, il mio boss mi trattenne per il braccio: «Aspetta, c’è una cosa di cui vorrei discutere con te» mi disse a bassa voce guardando gli altri che se ne andavano.
Cominciavo a conoscerlo bene, e quel tono da cospiratore mi faceva presagire che non avremmo tardato a sfoderare la nostra proverbiale furbizia.
Una volta soli nella stanza, richiuse la porta con cautela e senza giri di parole mi chiese:
«Devi trovarmi molto velocemente, e con discrezione, qualche tonnellata di mandorle d’albicocca. Ho bisogno di un sapore il più neutro possibile.»
«Sì, nessun problema, te le trovo, ho dei buoni contatti in Turchia e in Iran. Per quale cliente?»
«Un belga.»
«Ah! Capisco.»
Per afferrare bene l’importanza di questo dettaglio, bisogna sapere che i nostri clienti più… diciamo “contorti” erano belgi. Tanto che avevamo finito, per una sorta di condizionamento psicologico professionale, per associare i termini “belga” e “disonesto”. Questo non aveva nulla a che vedere con il razzismo nei confronti dei belgi, io li adoro e sono un fan sfegatato delle patatine fritte allo strutto e dei biscotti alla cannella, ma forse in Belgio c’era un microclima favorevole, o più verosimilmente delle lacune nei controlli di conformità.
«E sui documenti mettiamo solo “mandorla”, hai capito?» mi domandò fissandomi negli occhi come per sondare la mia anima nel profondo e scoprirvi la nera fiamma della lealtà al servizio del lato oscuro della Forza.
«Sì, perfettamente.»
Non bisognava essere dei geni per capire che, con il rincaro della mandorla, i furbetti avrebbero cercato di sostituirla con il nocciolo d’albicocca, che costa molto meno. Il seme di albicocca, o armellina, è diverso dalla mandorla (“frutto del mandorlo”, come diciamo noi specialisti) e ha un gusto più amaro, cosa che in genere non permette di sostituire l’uno con l’altro. Ma, in un periodo di crisi, si esce facilmente dal contesto consueto.
Quindi, abbiamo comprato mandorle d’albicocca, stando ben attenti a far figurare su tutti i documenti solo il termine “mandorla”, denominazione generica che poteva applicarsi benissimo a entrambi i frutti secchi. Soprattutto, non bisognava che comparissero termini più specifici come “albicocca” o “mandorlo”.
Così, il cliente belga mi ha comprato diverse tonnellate di queste armelline per farne della pasta di mandorle. Ne faceva di ogni tipo: bianca, rosa, verde, in bustine di cellofan per i bambini o in barrette per gli sportivi. La ricetta era semplice: zucchero e sciroppo di glucosio, armelline, aromi, coloranti e conservanti. E, naturalmente, poco frutto del mandorlo o niente del tutto.
Quello stesso cliente ha poi investito i suoi profitti in un impianto nuovo fiammante di marmellata industriale. Avete presente? Quelle deliziose marmellate in coppette di plastica che si trovano a colazione negli alberghi economici e di cui avevo promesso di riparlarvi…
Siccome anche lui era furbo, ha cercato di replicare il suo business model della pasta di mandorle nell’ambito della marmellata. Perciò gli abbiamo trovato degli acheni di fragola (i semini delle fragole) di cui si sbarazzano i produttori di succo, e anche dei concentrati di frutti di bosco e di sambuco, molto meno cari della fragola.
La ricetta: sciroppo di fruttosio e di glucosio (gli zuccheri naturalmente presenti nella fragola e che quindi potrebbero provenire dalle vere fragole: indispensabili in caso di analisi), acqua, succo concentrato di frutti di bosco (per il colore), acheni di fragola (marcatore visivo per conferire autenticità), pectina. Una bellissima marmellata di fragole senza fragole. Ma in fondo sto un po’ esagerando: qualche semino di fragola c’è davvero.
Il nostro amico si è poi lanciato nella produzione di crema spalmabile alla nocciola senza nocciole e di maionese senza uova. Un vero e proprio mago del food business, il re del mangiare economico, il miglior alleato del nostro potere d’acquisto. Quando penso che qualcuno è diventato famoso per aver semplicemente trasformato dell’acqua in vino… Un lavoro da dilettante.
Dal momento che vi ho appena brevemente parlato degli sciroppi di fruttosio e di glucosio, mi sembra opportuno dedicare loro una piccola parentesi educativa. Infatti, questi sciroppi di zucchero si ritrovano in buona posizione nelle liste degli ingredienti di una miriade di prodotti alimentari: le bibite gasate e le altre bevande zuccherate, i sorbetti e i semifreddi, la maionese, il ketchup, gli affettati, le marmellate, le passate, le creme, le gelatine, i prodotti di panetteria, le zuppe e i piatti pronti, i dolciumi…
Nella parola “fruttosio” c’è la parola “frutta”: è lo zucchero naturalmente presente in tutti i frutti maturi. Molti di voi saranno dunque stupiti di scoprire che il fruttosio prodotto industrialmente è invece ottenuto partendo dai cereali, essenzialmente mais e frumento. Concorderete che siamo piuttosto lontani dai bei frutti dolci e succosi che ci si potrebbe immaginare. Tuttavia, il procedimento è molto semplice.
La prima tappa consiste nell’estrarre l’amido dai cereali. Per quelli che non lo sanno ancora, il componente principale della farina di grano – la farina per fare il pane ottenuta semplicemente per frantumazione e vagliatura dei chicchi – è l’amido, uno zucchero detto “complesso”. Una farina classica ne contiene circa il 70%. Per semplificare, l’amido è come una lunga catena i cui anelli sono le molecole di uno zucchero detto “semplice”, il glucosio.
La seconda tappa consiste esattamente nel tagliare questa catena d’amido per liberare ogni anello e ottenere uno sciroppo di glucosio. È ciò che si chiama idrolisi dell’amido, per la quale è necessario l’uso di enzimi (alfa-amilasi e glucoamilasi, per chi fosse interessato) prodotti da organismi geneticamente modificati ad alto rendimento, i famosi OGM.
Per ottenere il fruttosio serve un’ultima tappa detta di “conversione enzimatica del glucosio in fruttosio”. Anche qui si utilizza un enzima (glucosio isomerasi), anch’esso prodotto da OGM, che trasforma una molecola di glucosio in una molecola di fruttosio. Magia.
Come potete immaginare, se ci si prende la briga di produrre questo sciroppo di fruttosio, è perché presenta alcuni notevoli vantaggi per l’industriale. Innanzitutto, dal punto di vista economico, il fruttosio è molto interessante perché è meno caro del saccarosio (il nostro buon vecchio zucchero da tavola, di canna o di barbabietola). Anche il suo potere dolcificante è superiore, il che fa sì che si possano sostituire 100 grammi di zucchero tradizionale con 60 grammi di fruttosio e percepire un sapore dolce equivalente.
Il fruttosio è ugualmente interessante dal punto di vista tecnico, perché da una parte migliora la stabilità dei prodotti in cui viene incorporato, e dall’altra regala una bella colorazione bruna agli alimenti cotti, come la pasticceria da forno e altri prodotti di panetteria.
Infine – ed è forse la sua “qualità” principale, nonostante gli industriali si mostrino assai discreti su questo punto – il fruttosio favorisce la produzione di grelina, un ormone che stimola l’appetito. Per essere sazio, il consumatore che ingerisce fruttosio dovrà mangiare di più, cosa che si tradurrà alla fine in un maggior numero di prodotti venduti. In poche parole, più ne consumate, più ne sentirete il bisogno. È un sistema molto simile all’assuefazione al tabacco a lungo negata e favorita dai produttori di sigarette.
Naturalmente, se ci si mette dalla parte dei consumatori, il bilancio è ben diverso. Aggiungere zucchero alla propria alimentazione non risponde ad alcun bisogno biologico e la presenza di fruttosio nel cibo industriale non arreca alcun beneficio, ma al contrario seri inconvenienti per la salute. Un articolo di «Le Monde» del 30 gennaio 2015, intitolato Il fruttosio è il principale motore del diabete, che riprende i risultati di uno studio americano pubblicato dalla Mayo Foundation for Medical Education and Research, lo spiega molto bene: «Il consumo eccessivo di fruttosio determina delle modificazioni metaboliche. Esso costituisce il substrato del diabete di tipo 2 [una forma di diabete provocata dalla resistenza delle cellule all’insulina e che rappresenta il 90% delle forme della malattia], una malattia il cui incremento – più di 380 milioni di persone colpite nel mondo – ha assunto proporzioni epidemiche. Ogni anno, sul pianeta, più di cinque milioni di decessi sono dovuti al diabete, che insieme all’obesità e alla sedentarietà rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare».
Oggi, nel mondo, un adulto su dieci è colpito da diabete di tipo 2. Questa proporzione è più che raddoppiata tra il 1980 e il 2008. Negli Stati Uniti, il 75% del cibo contiene zuccheri aggiunti e il consumo medio di fruttosio pro capite raggiunge il livello record di 83,1 grammi al giorno. Più di un adulto americano su tre è diventato, a gradi diversi, resistente all’insulina, segno di uno stato di prediabete che evolverà in diabete vero e proprio. I ricercatori stimano che l’aspettativa di vita delle persone colpite subirà una riduzione dai cinque ai dieci anni.
Eppure, consumare fruttosio allo stato naturale, nella frutta, non pone problemi per la salute. La ragione è che un frutto maturo ne contiene molto poco (in una pesca, per esempio, non ce n’è più dell’1%) e racchiude anche acqua, fibre, antiossidanti e altre sostanze benefiche per la nostra salute che sono drammaticamente assenti nel cibo industriale. Il problema è tutto qui. Del resto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda senza ambiguità di limitare l’apporto energetico degli zuccheri aggiunti a meno del 10% dell’apporto calorico giornaliero, o meglio ancora di scendere sotto il 5% per una salute ottimale.
Il mio consiglio: mangiate la frutta! E, quanto meno, evitate nei limiti del possibile le bevande zuccherate.
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Capitolo 28
Delocalizzazioni: la legge della giungla
Uno dei nostri principali concorrenti ha chiuso uno dei suoi stabilimenti in Inghilterra. Quella fabbrica per il trattamento e il confezionamento delle spezie, ha annunciato, non era più redditizia, non era più a norma e le macchine erano totalmente obsolete. Una chiusura per motivi tecnologici, o economici, dipende.
Ebbene, qualche mese dopo, durante un giro in Turchia alla ricerca di nuovi fornitori di spezie, ho visitato una bellissima fabbrica, nuova di zecca, situata nella zona franca di Smirne. Comproprietà di quel nostro concorrente e di una società locale, l’azienda offriva i suoi servigi a una delle nostre filiali. Ho avuto la sorpresa di ritrovare lì, attive, tutte le macchine inglesi della fabbrica che aveva chiuso, ma ovviamente con degli operai turchi a farle funzionare. Alcuni di loro, d’altronde, erano occupati a confezionare tranquillamente a mano delle foglie di alloro in piccoli sacchetti di plastica la cui etichetta diceva made in United Kingdom – il che significa “fabbricato in Turchia”, come avrete certamente intuito. Allora ho compreso meglio perché il nostro concorrente era meno caro di noi nella maggior parte delle gare d’appalto in cui eravamo in competizione.
Quindi anche noi, non meno furbi, abbiamo delocalizzato. Dopotutto, perché no? E poi quale altra scelta avremmo avuto? Insomma, abbiamo chiuso in Francia una fabbrica per il trattamento di erbe e spezie e un’altra che produceva surgelati, e licenziato una cinquantina di dipendenti. Salari troppo alti, contributi sociali e tasse di ogni tipo. Tutto troppo caro. Adesso le nostre macchine sono in Vietnam e in Cina, e danno da vivere a dipendenti vietnamiti e cinesi.
Se vi interessa capire come si fa, dovete sapere che in realtà è una cosa abbastanza semplice.
Prima tappa: scegliere con grande discrezione, nel paese a basso costo prescelto, i partner che vi serviranno da intermediari.
Seconda tappa: con uno sforzo discreto di propaganda, preparare gli animi a una possibile e spiacevole chiusura delle sedi. Per questo, basta annunciare con espressione accigliata dei pessimi risultati o la perdita di clienti importanti. Dopodiché, lasciar cuocere a fuoco lento.
Terza tappa: costruire senza sbandierarlo ai quattro venti la nuova fabbrica nel paese prescelto e organizzare la logistica.
Quarta tappa: annunciare, con gli occhi umidi e in tono funereo, la chiusura dello stabilimento, il piano di salvaguardia dell’occupazione e i licenziamenti, esagerando sensibilmente l’importanza di questi ultimi per rendere possibile poi una parvenza di trattativa con i rappresentanti del personale e indorare meglio la pillola.
Quinta tappa, il colpo di grazia: chiudere la fabbrica in questione dopo aver fatto un po’ di scorta per lasciare il tempo al nuovo impianto di essere pienamente operativo e di subentrare al vecchio agevolmente e senza traumi.
Come vedete, nulla di complicato, l’importante è rispettare alcune regole elementari, come quella che impone di salvare le apparenze. Il liberismo non è l’assenza di regole, è l’applicazione della legge della giungla. Il liberismo non è anarchia. Esistono delle regole istituite dai potenti per favorire… i potenti.
La vera domanda da farsi non è se sia morale o no, ma: perché delocalizzare è così vantaggioso? Molto semplicemente perché si riducono i costi al minimo e si realizza il massimo dei profitti. L’abbiccì del capitalismo.
Per restare competitive, le aziende sono obbligate a cercare di economizzare sui costi di produzione e, in conclusione, a delocalizzare le loro fabbriche, i loro uffici tecnici, la loro contabilità ecc., nei paesi dove i costi sono più bassi. Delocalizzare risponde a una necessità vitale per l’azienda che viene messa in una situazione impossibile da politiche inadeguate. Un’azienda troppo ingenua o troppo poco reattiva è semplicemente condannata.
Come pensate di vincere una gara d’appalto nella grande distribuzione contro un concorrente inglese che ha delocalizzato la sua produzione in Turchia, se proponete un prodotto sì di miglior qualità e made in France, ma più caro del 20%?
Ora, come ammette l’Osservatorio francese delle congiunture economiche (OFCE) nella «Lettera dell’OFCE»1, «tutti i paesi sono messi in concorrenza […] i lavoratori che sono riusciti a ottenere retribuzioni, condizioni o legislazioni del lavoro troppo vantaggiose, si vedono preferire lavoratori meno esigenti».
Ecco i costi di un’ora di lavoro non qualificato:
– paesi del Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco): 4 euro;
– paesi dell’Europa centrale e orientale: 8 euro;
– Cina, Vietnam: 2 euro;
– Francia: 20 euro.
Un lavoratore cinese o vietnamita costa meno di un decimo di un dipendente francese, a fronte di più ore di lavoro settimanali, meno vacanze e una maggior docilità. Si tratta di lavoratori che possono essere licenziati immediatamente, senza preavviso né indennità. E per loro non sono previsti nessun RMI (reddito minimo di inserimento), nessuna indennità di disoccupazione, niente APL (sussidio statale per l’alloggio) né CMU (copertura sanitaria universale), niente scuole né cure gratis, niente sovvenzioni per genitori singoli né pensioni minime di vecchiaia, niente SMIC (salario minimo orario) né tredicesime o assegni di inizio anno scolastico…
In Cina, paese ex comunista, la miseria significa morire di fame in casupole con tetti di lamiera e muri di terra nel profondo delle remote province dell’Hebei o dello Yunnan. Allora capirete meglio perché i nostri lavoratori cinesi accettano sorridendo condizioni di lavoro che la maggior parte delle persone in Francia rifiuterebbe.
E la distanza non è più un problema. In seguito allo sviluppo degli scambi internazionali, da vent’anni a questa parte il costo del trasporto, soprattutto marittimo, non ha fatto che diminuire e non costituisce più un freno per gli scambi transcontinentali. Le ultime generazioni di portacontainer trasportano tra Shanghai e Amburgo 18.000 container per viaggio, per meno di 1.000 euro a container, con consegna in tre settimane. Quando importo un container che contiene 20 tonnellate di aglio disidratato proveniente dalla Cina, primo produttore mondiale, il trasporto mi costa meno di 5 centesimi di euro al chilo. Una cifra irrisoria!
Ma non sono solo il costo del lavoro e la legislazione accomodante che spingono a investire in Cina. È anche una questione di mentalità, di pragmatismo economico. Sappiate per esempio che il terreno della nostra nuova fabbrica, interamente risanato e recintato, ci è stato dato dal comune. Non abbiamo pagato niente! Nada!
Ogni anno, riceviamo dal governo locale un premio in contanti proporzionale al valore delle nostre esportazioni. Dovete ammettere che è molto più incentivante dell’estorsione sistematica attuata sui magri margini delle aziende dal fisco di certi paesi di cui non farò il nome.
Avrete dunque capito che la delocalizzazione non è altro, per l’imprenditore, che una reazione logica da buon amministratore: produrre là dove è meno caro e vendere là dove c’è potere d’acquisto. Gli industriali cercano soltanto di trarre il miglior profitto dalle regole che gli stati impongono loro. Non fanno le leggi, ma devono adeguarvisi.
Continua --->>> Capitolo 29
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Capitolo 29
Supermercati: alleati del vostro potere d’acquisto?
Stamattina, la riunione di lavoro settimanale con i cat man è stata agitata… Ah, scusate, cat man è un’abbreviazione per category manager, in parole povere il commerciale incaricato di vendere una specifica gamma di prodotti a un cliente della grande distribuzione.
CAT MAN 1. Mi servono 100.000 flaconi di ketchup da 450 millilitri a marchio Distribubbole con il 20% di sconto per i trent’anni di attività.
IO. Nessun problema, ma costerà il 20% in più.
CAT MAN 1. Dobbiamo farlo allo stesso prezzo, o addirittura con uno sconto. È per la ricorrenza, dobbiamo partecipare, se non vogliamo che ci tolgano dagli scaffali.
IO. Quindi venderemo in perdita, il che è proibito, così come abbiamo fatto il mese scorso con lo stesso cliente per i “quindici giorni del rientro”, e due mesi prima per l’operazione “una spintarella alle vostre vacanze” e così via.
CAT MAN 2. Non abbiamo scelta, se non facciamo queste operazioni verremo subito sostituiti dagli olandesi o dai belgi.
IO. Sono solo pretesti per costringerci a cacciare la grana e per recuperare il massimo di margine. Dicono la stessa cosa agli olandesi per taglieggiare anche loro.
CAT MAN 3. Io avrei bisogno di fare dei lotti di funghi surgelati per un 2x1, ne devo avere ventimila per i supermercati SuperFluo del Sudovest. È per i quindici giorni dei “prodotti locali”.
IO. Urca, questo vuol dire vendere il prodotto al 50%, andiamo in perdita totale, laggiù!
CAT MAN 3. O così, o perdiamo il mercato nazionale. E ne ho parlato al capo, lui è d’accordo.
IO. Oltretutto sono funghi cinesi: te li sogni, quelli locali.
CAT MAN 3. Chissenefrega, la casalinga non lo scoprirà mai. Sulla confezione metteremo in evidenza la ricetta, una padellata alla sarladaise.
IO. Ma ragazzi, non ne avete piene le tasche di farvi mettere i piedi in testa dalle catene di supermercati?
CAT MAN 1. Se tu sapessi. A te non tocca vedere tutto quello che vediamo noi, vecchio mio. Pensa che adesso dobbiamo pagare anche solo per presentare i nostri prodotti ai responsabili dei reparti! Questa cosa la chiamano “saloni regionali interni”. Dobbiamo prendere in “affitto” da loro un pezzo di scrivania per una fortuna, e la partecipazione è obbligatoria. Ci sono anche le penali per il ritardo se il fattorino arriva quindici minuti dopo, le partecipazioni ai “budget pubblicitari” e altre promozioni immaginarie. Dobbiamo pagare per la scaffalatura, la fidelizzazione dei clienti, per i pezzi danneggiati… Se ne inventano una nuova tutti i giorni.
In quanto fornitore, sono nella posizione giusta per dirvi che in Francia la grande distribuzione ha fatto man bassa dell’industria agroalimentare. Le cinque catene francesi sono presenti ovunque nel mondo, dalla Cina al Sudamerica passando per l’Africa. Un successo che è stato finanziato in questi ultimi vent’anni tramite il salasso inflitto alle piccole e medie imprese francesi, e da un’indubbia emorragia del potere d’acquisto dei consumatori: voi.
Il rapporto di forza è talmente squilibrato che una piccola o media impresa non ha il minimo peso di fronte ai mastodonti della distribuzione. Le centrali d’acquisto le impongono sistematicamente delle condizioni ingiuste che essa deve accettare con il sorriso. Questi vincoli portano molte imprese al fallimento o, com’è stato il nostro caso, le spingono a delocalizzare. Alcuni grandi gruppi di distribuzione sono persino diventati esperti nel rilevare piccole società dopo averle spinte alla rovina.
Oggi, in Francia, non esistono quasi più macellerie, panetterie e gastronomie indipendenti. Le piccole e medie imprese agroalimentari hanno un unico sbocco commerciale possibile: vendere alla grande distribuzione. Se vogliono farlo, devono per prima cosa passare alla cassa. Verrà imposto loro il versamento di una certa somma per l’esposizione, qualche partecipazione pubblicitaria e altre prestazioni fittizie. Una volta che il prodotto è sullo scaffale, bisognerà pagare ancora per conservare il posto, pagare per partecipare a “operazioni promozionali” tipo “anniversario della catena”, insomma versare i famosi sconti fornitori che rappresentano una grossa parte del prezzo del prodotto.
Il problema è che nulla vieta ai supermercati di fatturare al proprio fornitore queste “prestazioni” o delle penali improprie. E di certo loro non ci rinunciano, credetemi.
Non è un problema vostro? Ve ne infischiate? Avete torto, perché il consumatore non può mai uscirne vincitore. L’industriale è obbligato a integrare nel suo prezzo di vendita tutti gli sconti fornitori che sa di dover versare in seguito e, per restare comunque competitivo, ad abbassare i suoi costi, cioè, in ultima istanza, la qualità dei prodotti.
Gli ipermercati, con la loro bulimia di sconti fornitori, fanno coscientemente salire i prezzi facendo credere nel contempo ai clienti che si stanno battendo per loro contro gli industriali cattivi. Ma sappiate che oggi gli sconti fornitori possono rappresentare più del 60% del prezzo finale pagato dal consumatore, e che la media nel settore alimentare è di circa il 35%.
François Rullier, il direttore dell’Istituto di collegamento e di studi delle industrie di consumo (ILEC), spiega che quando il consumatore paga 10, l’industriale incassa 6,50 e il distributore 3,50. Quando il prezzo aumenta, due terzi finiscono in tasca al distributore, il 10% è per l’industriale e un quarto è riservato al consumatore sotto forma di buoni sconto o buoni omaggio, quelli che chiamiamo “nuovi strumenti promozionali”. Quindi, potete constatare da voi che c’è tutto l’interesse ad aumentare i prezzi.
I nuovi strumenti promozionali, ultima trovata dei supermercati per infinocchiare i gonzi, sono finanziati dagli sconti fornitori e quindi sono già compresi nel prezzo di vendita. Queste piccole elargizioni, siete voi che le pagate. Ci sarà un motivo se la Francia è uno dei paesi più cari d’Europa (il 15% in più della Germania, per esempio, secondo quanto rilevato dalla Morgan Stanley).
Ora, nulla vieterebbe agli ipermercati, per esempio abbassando semplicemente i loro prezzi, di restituire in blocco gli sconti fornitori ai consumatori, cosa che si guardano bene dal fare.
Sappiate che lo stato riscuote la sua decima imponendo un’IVA del 20% sugli sconti fornitori, mentre invece sui prodotti alimentari è solo del 5,5%. Comunanza di interessi? Sta a voi farvi un’opinione.
Ancora un’informazione necessaria alla vostra istruzione: di alcuni prodotti abbiamo due gamme identiche, ma con un marchio diverso e… il 40% di differenza nel prezzo di vendita. Sapete perché?
Semplicemente perché una gamma integra i famosi sconti fornitori e sarà venduta a caro prezzo ai supermercati, mentre l’altra sarà venduta a un prezzo reale di mercato agli hard discount, che invece non impongono sconti fornitori.
Perché due gamme? Perché non cambiare semplicemente il prezzo a seconda del cliente? Per l’unica buona ragione che è vietato, in Francia, vendere le stesse cose a un prezzo diverso a seconda del cliente: è discriminatorio. Una legge tra le più lodevoli, ma facilmente aggirabile tramite la creazione di due marchi diversi per i medesimi prodotti.
Un’azienda che vuole vendere contemporaneamente ai supermercati classici e agli hard discount deve quindi sdoppiare le sue gamme, cambiando i marchi o le grammature, in breve rendendo i prodotti artificialmente diversi. Così la legge viene beffata, i consumatori si sentono smarriti e solo i supermercati ci si raccapezzano.
Inoltre, quando non ci si chiama Nestlé, Danone o Coca-Cola, è molto difficile guadagnarsi il diritto di mettere i propri prodotti alimentari sugli scaffali di un ipermercato. Gli spazi sono molto cari, e monopolizzati dai market leader e dai famosi MDD o “marchi dei distributori” (possono essere costituiti o semplicemente dal nome del distributore o da una marca inventata che appartiene al distributore e si trova solo nei suoi punti vendita). Lo scopo degli ipermercati, tramite i marchi del distributore, è di appropriarsi del margine prodotto dalle grandi marche e indebolirle. I loro prodotti fanno concorrenza in modo sleale ai prodotti delle marche industriali. Sono largamente favoriti dal distributore per quanto riguarda l’inserimento nei reparti, e i margini sono manipolati perché sembrino meno cari dei loro equivalenti delle grandi marche. Quanto al consumatore, in realtà non ha niente da guadagnare.
Per sopravvivere, le piccole e medie imprese dell’agroalimentare spesso non hanno altra scelta se non quella di “fare MDD”, cioè fabbricare prodotti dei marchi dei supermercati, senza la possibilità di promuovere i propri. Beninteso, i supermercati non sanno niente dei prodotti sui quali fanno apporre i loro nomi e loghi. Il loro lavoro è distribuire, non fabbricare. E come potrebbero essere esperti di biscotti, minestre, piatti pronti, gelati alla crema, pannolini per neonati, sciampi e piccoli elettrodomestici?
I compratori dei supermercati, oberati di lavoro e mal pagati, si fanno carico di un considerevole numero di prodotti che non conoscono. Non sono informati su quello che acquistano e cambiano categoria di prodotti regolarmente, in media ogni tre anni, per evitare qualsiasi connivenza con i fabbricanti. I superiori esercitano su di loro una pressione terribile affinché paghino i prodotti sempre meno. Per ottenere questo, tutti i mezzi sono buoni.
Allora, mi direte, se non ne sanno niente, come fanno a far fabbricare un prodotto e a controllarne la qualità?
Semplice, chiedono all’industriale di copiare le marche leader (Nutella, Ricard, Coca-Cola, Lipton, Danone…) e di mettere il loro nome sulla confezione.
Il capitolato d’appalto dei prodotti MDD è ricalcato sulle caratteristiche dei prodotti delle grandi marche. Naturalmente, si esige dal fabbricante una totale trasparenza dei prezzi, il nome dei suoi fornitori di materie prime, i dettagli del processo…
Per assicurarsi che il fabbricante non nasconda niente, gli impongono, a sue spese, certificazioni intrusive come la BRC (British Retail Consortium) o l’IFS (International Food Standard), che vanno ad aggiungersi alle certificazioni di qualità in uso nell’industria, come l’ISO, l’HACCP…1
Per quanto riguarda le confezioni, nessun marketing complicato. Ancora una volta si copia, si “riprendono i codici” dei leader. La prossima volta che andate nel vostro supermercato preferito, osservate come le marche dei distributori assomigliano alle grandi marche: formati, colori, illustrazioni, caratteri…
Tutto è stranamente simile, tranne il contenuto.
Perché, quando dico che i prodotti MDD copiano i leader, voglio dire che copiano soprattutto ciò che si vede. Il risultato di solito non è all’altezza, essenzialmente per ragioni di capacità professionale specifica, ma non solo. Il prodotto deve sembrare equivalente, ma deve essere meno caro. Ai piccoli industriali vengono concessi margini insufficienti, cosa che non permette loro né di investire nella ricerca e nella produzione né di pagare bene i loro dipendenti. Questa quadratura del cerchio impone generalmente delle differenze nella qualità degli ingredienti e nell’uso di additivi, e un degrado della ricetta originale.
I prezzi troppo bassi nuocciono incontestabilmente alla qualità. Ora, nell’industria non esistono miracoli, la qualità ha sempre un costo e posso dirvi che in questi ultimi anni la qualità dei prodotti che vendiamo alla grande distribuzione non ha fatto altro che diminuire, mentre i prezzi di vendita al consumatore finale non hanno fatto altro che aumentare. Cercate l’errore.
Scettici?
Giudicate voi stessi: ecco com’è andata da noi con la crema spalmabile, per l’acqua di fiori d’arancio, e per il miele.
CAT MAN DISTRIGNAM. Ci chiedono se possiamo fare della Nutella con il loro marchio.
IO. Quindi vogliono della crema spalmabile alle nocciole che assomigli il più possibile a quella della Ferrero venduta con il marchio Nutella, è così?
CAT MAN DISTRIGNAM. È quello che ho appena detto, vogliono della Nutella, ma con il loro marchio. Una copia, insomma.
IO. Ok, ma la Nutella contiene il 13% di nocciole, è l’ingrediente più caro della ricetta, il resto è soprattutto olio e zucchero. Se partiamo con la stessa percentuale di nocciole, arriveremo praticamente al loro stesso prezzo.
CAT MAN DISTRIGNAM (sussultando, con il volto alterato, come se quell’osservazione fosse un attacco personale). Non è possibile!
IO. Possiamo farla meno cara, ma l’unico modo è abbassare la percentuale di nocciole. Però il prodotto non sarà del tutto identico.
CAT MAN DISTRIGNAM. Ne parlerò al cliente e chiederò dei campioni alla Ricerca e Sviluppo.
Lo ha fatto, e il cliente ha accettato una crema spalmabile alle nocciole con il 10% di nocciole soltanto, un po’ meno cacao, meno latte in polvere e più zucchero. Era meno buona della Nutella, ma sensibilmente meno cara.
La cosa è andata avanti qualche mese, poi il compratore della grande distribuzione è cambiato e quello nuovo, per raggiungere i suoi obiettivi di abbassamento di prezzo, ci ha chiesto di “rimaneggiare il prodotto”.
Allora abbiamo diminuito le nocciole a meno del 5%. Ma stavolta il prodotto era decisamente molto diverso dal prodotto leader e il buon sapore di nocciole quasi assente. Perché la cosa reggesse, il nostro reparto Ricerca e Sviluppo ha aggiunto dell’aroma di nocciola e il gioco era fatto. Meno caro, sapore, colore e consistenza vicini a quelli del prodotto leader, eppure potreste dire che questi prodotti che si assomigliano sono della stessa qualità?
Anche il caso dell’acqua di fiori d’arancio è emblematico.
Ogni anno vendevamo tranquillamente decine di migliaia di bottiglie di vera acqua di fiori d’arancio, prodotto naturale ottenuto dalla distillazione dei fiori. La qualità era eccellente, il gusto delicato, sfaccettato, deciso, ma… Indovinate… era troppo caro per i nostri clienti della grande distribuzione e i loro marchi di distributori.
Per rispondere alla loro aspettativa, abbassare i prezzi, abbiamo sviluppato, con un aromatiere della zona di Grasse, un aroma molto concentrato di “fiore d’arancio” ottenuto a partire da trucioli di legno. Un litro di aroma diluito in mille litri d’acqua permetteva di ottenere un prodotto finito artificiale che non costava quasi niente. In più, questo aroma non era sensibile alla luce e non imponeva, come la vera acqua di fiori d’arancio, di utilizzare una bottiglia colorata, generalmente azzurra.
In un primo tempo abbiamo mischiato vera acqua di fiori d’arancio e aroma. Naturalmente, il nostro cliente non ha cambiato l’etichetta, non ha informato i consumatori, e ancor meno ha abbassato il prezzo di vendita.
Alla fine, l’acqua di fiori d’arancio, troppo cara, è stata totalmente sostituita con l’aroma, sempre senza dichiarare nulla. Fino al giorno, molto tempo dopo, in cui l’autorità antifrodi ci ha richiamato all’ordine e ha imposto di indicare chiaramente sulla confezione che si trattava di un aroma e non di una vera acqua di fiori.
Questo è il motivo per cui oggi al supermercato non trovate più delle vere acque di fiori d’arancio o di rosa… ma volgari aromi più o meno chimici, fabbricati non si sa come e non si sa con cosa.
È andata in maniera simile nel caso di un miele per una catena di distribuzione rivolta ai professionisti della ristorazione.
Un giorno il compratore ci ha improvvisamente chiesto di abbassare il prezzo del miele che vendeva col suo marchio in confezioni di grosso formato: vasi da 2 chili e mezzo e da 10 chili, destinati alle pasticcerie, ai ristoratori o a piccoli produttori di biscotti. Naturalmente, questo miele primo prezzo era miele cinese di bassa qualità ed era impossibile trovarne di più economico.
Il marchio ha quindi deciso di lanciare un nuovo prodotto: un miscuglio composto per l’80% di miele e per il 20% di glucosio. Le vendite di questo miscuglio meno costoso sono decollate rapidamente, a detrimento del vero miele.
Ovviamente, questo non è stato sufficiente e siamo progressivamente passati a un miscuglio prima con una proporzione di 60/40 e poi di 51/49, per conservare la denominazione “miele-glucosio”.
Ma siccome i clienti si erano abituati e alla fin fine se ne fregavano delle denominazioni, visto che non erano i consumatori finali, abbiamo lanciato un “glucosio-miele” al 40 di miele e 60 di glucosio, usando un miele scuro per conservare un minimo di colore.
L’ultimo passo è stato l’aggiunta di caramello per il colore e dell’aroma di miele per il sapore: siamo così arrivati prima a un miscuglio 20/80 e poi, finalmente, al 100% di glucosio colorato aromatizzato.
Pensate ancora che i prodotti a marchio del distributore (alcuni dei quali nemmeno fanno riferimento esplicito alla catena, per non svalutare la propria immagine) siano equivalenti a quelli delle grandi marche? Liberissimi di farlo. Per aver conosciuto quella realtà dall’interno, posso assicurarvi che la differenza di prezzo si spiega generalmente con una differenza di qualità, nonostante quello che vi dicono i distributori.
O quelli che non hanno mai messo piede in una fabbrica.
1. L’ISO (International Organization for Standardization) è il più autorevole organismo a livello mondiale per la determinazione e la standardizzazione delle regole tecniche, di valutazione e di ispezione e dei processi produttivi. L’HACCP (Hazard-Analysis and Critical Control Points) certifica la salubrità e la sicurezza di un prodotto alimentare [N.d.T.].
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Capitolo 30
Colpevoli, ma non responsabili
Uno dei miei colleghi, un amico, ha lavorato per molto tempo come compratore per un grande marchio toccato di recente dallo scandalo della carne di cavallo. Sapeva, come molti altri nella sua società, che il manzo che comprava era strano e troppo a buon mercato per essere onesto, ma nessuno, prima che scoppiasse lo scandalo, si è davvero messo a indagare su ciò che non andava.
La documentazione che riceveva – fatture e documenti di viaggio per la contabilità, certificati d’analisi di base, certificati d’origine e veterinari per i suoi servizi qualità – era tutta apparentemente conforme. Nell’azienda, ogni reparto, ogni responsabile, aveva il necessario documento conforme che lo esonerava da ogni responsabilità in caso di problemi.
La sua azienda aveva delle procedure simili a quelle in vigore nella mia. Entrambe avevano ottenuto le più alte certificazioni di qualità internazionali, e condividevano la stessa cultura e la stessa mentalità.
«Perché non hai fatto niente se pensavi che il manzo avesse qualcosa che non andava?» gli ho chiesto.
«Ne ho parlato al mio responsabile, al direttore della fabbrica e al responsabile della qualità, ma tutti i documenti erano conformi, allora non abbiamo fatto niente. Avevamo tutti altre priorità.»
Capivo perfettamente, perché avrei potuto dire esattamente la stessa cosa se mi avesse fatto la stessa domanda a proposito di certi miei prodotti.
Il mio amico comprava manzo e riceveva cavallo, tutti quanti sospettavano che ci fosse un problema, ma nessuno rischiava nulla. Tutti erano coperti perché la loro responsabilità si limitava al possesso di un documento conforme, prova assoluta che avevano fatto il loro lavoro coscienziosamente. Se il documento in questione si rivelava essere un falso, allora il biasimo sarebbe ricaduto sul cattivo fornitore, o sul fornitore del fornitore, lontano, nel paese vicino o un po’ più lontano ancora.
E se, alla fine, un problema si verificava, la cosa non doveva fare rumore, poiché la consuetudine voleva che queste situazioni venissero trattate con discrezione tra i professionisti e le autorità. I consumatori, beninteso, non ne avrebbero saputo nulla, com’era capitato tante volte in passato.
I tempi cambiano e lo scandalo non ha potuto essere soffocato. Nessuno aveva immaginato delle ripercussioni tali in assenza di morti e feriti, e senza che nessuno avesse sofferto di alcuna intossicazione alimentare.
Questa volta i giornalisti hanno svolto perfettamente il loro ruolo con inchieste serie, informando correttamente i consumatori e denunciando le derive del settore. Non hanno mollato, ed è grazie a loro che da questa faccenda si potranno trarre delle lezioni e che un giorno la sicurezza alimentare non sarà più solo una bella parola. O almeno si spera.
Perché non bisogna illudersi che gli industriali e i loro dipendenti facciano le pulizie da soli senza che vi siano vigorosamente spronati. Produrre qualità è più complicato e più costoso. Nessuno desidera accollarsi dei vincoli supplementari in un ambiente che è già di per sé molto stressante e concorrenziale.
E poi, anche se alcuni dipendenti isolati volessero migliorare le cose, non potrebbero. L’azienda non funziona seguendo un modello democratico in cui ognuno esprime liberamente le proprie idee e i propri dubbi. La gerarchia comanda e fa applicare le sue decisioni. Se volete ottenere i vostri premi di fine anno, una promozione, che il capo vi inviti a pranzo ogni tanto e vi dia una pacca sulla spalla, o qualsiasi altra forma di gratificazione, è meglio non essere percepiti come un elemento perturbatore. Nemmeno l’ambiente è adatto. I vostri colleghi, i fornitori, i clienti stessi… a nessuno piacciono i guastafeste.
«E tra voi parlavate spesso dei vostri dubbi sulla qualità del manzo?» ho chiesto al mio amico, per affinare il mio confronto tra le nostre due società.
«Certo, continuamente!» ha esclamato come se finalmente potesse lasciare libero corso alla collera per non essere stato ascoltato, per non aver agito prima.
«Ma mai per iscritto, giusto?»
Mi ha guardato senza aggiungere una parola, ci eravamo capiti alla perfezione. Non c’era davvero nessuna differenza.
La “qualità” esibita dalle nostre aziende, come da molte altre, è solo di facciata. Scioriniamo grandi e nobili discorsi, sbandieriamo i nostri impegni etici, i nostri certificati, le nostre procedure… Tutto quanto riempie decine di schedari e interi armadi di carta. Si scrive ogni cosa, fin nei minimi dettagli, dalle caratteristiche del sapone liquido da usare nei bagni al colore delle salviette di carta per asciugarsi le mani nei reparti. Ognuno conserva gelosamente i messaggi di posta elettronica per serbare traccia di ciò che gli hanno chiesto o mandato, per ogni evenienza. Ma tutto questo è solo la parte emersa dell’iceberg, la parte presentabile, l’alibi di un lavoro serio e responsabile.
Perché non troverete alcuna traccia scritta dei dubbi che nutriamo sulla qualità delle nostre spezie, del miele o del manzo del mio amico. Gli argomenti “delicati” vengono affrontati a voce durante le riunioni in comitato ristretto, o per telefono. Nessuna traccia, nessuna prova.
È a voce che il mio capo mi ha chiesto di triturare il peperoncino con lo sterco di topo, di comprare origano che non era origano o concentrato di pomodori cinesi marci. È a voce che il responsabile della qualità mi ha spiegato che gli servivano delle analisi conformi a questo o quel valore per questo o quel parametro. E sempre a voce il direttore della produzione mi ha chiesto qualche pallet di un certo additivo che poi è scomparso nei meandri dello stabilimento, perché stranamente non è apparso in nessuna delle liste di ingredienti stampati sulle nostre confezioni.
Voi pensate che questo non sia possibile, che gli ispettori che rilasciano i certificati di qualità non possano ignorare simili irregolarità. Vi dirò soltanto che sono stato sottoposto a ispezione decine di volte e che abbiamo sempre ricevuto ottimi giudizi sul nostro sistema di garanzia della qualità. Sì, eravamo certificati al più alto livello possibile.
E perché non dovrebbe essere altrimenti, dal momento che gli ispettori sono solo degli imbrattacarte? Dategli il documento giusto – vero o falso che sia, non importa, visto che non hanno né il tempo né i mezzi per verificarlo – e saranno felicissimi. Contratti con intestazione, specifiche con le formule corrette, certificati con le cifre giuste nelle caselle giuste, ed è tutto a posto!
Vi racconto quanto segue a titolo di aneddoto.
Qualche volta nella mia carriera è successo che, in presenza di un rischio troppo grande, la macchina si inceppasse. Per essere chiari, quando l’imbroglio è troppo visibile, il buon senso vi dice che ci sono grossi rischi di farsi beccare e di farsi bacchettare severamente sulle dita, e allora nessuno vuole prendersi la responsabilità di lanciare la produzione o di convalidare il prodotto.
Ma rassicuratevi, la cosa non dura a lungo e va più o meno in questo modo:
IL DIRETTORE DELLA PRODUZIONE (generalmente una persona dal linguaggio diretto). No, ma voi siete matti, non posso fare la maionese con l’olio di soia OGM! Il cliente ha un capitolato d’appalto “100% non OGM”. Questi compratori fanno schifo! Finiremo in galera, per colpa delle vostre Stronzate…
IL COMPRATORE (in questo caso io, ma di solito delle persone per bene). In questo momento il fornitore non ha scorte di soia garantita non OGM. Se il cliente ne vuole, deve aspettare due settimane, altrimenti può cambiarlo con olio di colza ugualmente non OGM, ma più caro.
IL DIRETTORE DELLA PRODUZIONE. Non mi prendo la responsabilità di fabbricare con olio OGM, ne parlerò alla direzione, non dobbiamo dec…
LA DIREZIONE (generalmente delle persone che hanno una risposta a tutto). Può usare quest’olio senza paura, amico mio, è per un cliente nella ristorazione collettiva, la maionese verrà consumata molto in fretta. Nessuno si accorgerà di niente, e una mescolanza accidentale o un errore del fornitore sono cose che possono sempre capitare…
IL DIRETTORE DELLA PRODUZIONE (generalmente delle persone non completamente idiote). In questo caso mi serve qualcosa di scritto per sbloccare il lotto.
LA DIREZIONE (generalmente delle persone che non fanno scritti). Caro amico della qualità, come sta la sua famigliola? A proposito, congratulazioni per il buon esito del nostro ultimo audit, sono impressionato. E, naturalmente, ha il mio via libera per il suo corso di formazione alla redazione delle procedure in gotico semplificato sulla Costa Azzurra, ne approfitti per prendere qualche giorno di vacanza, lo faccia per me. Ora che ci penso, sarebbe bene se potesse liberarmi di questo piccolo lotto di olio di soia, per produrre abbiamo solo quello in magazzino, e il cliente ha fretta. Lo farei io stesso ma stupidamente mi sono slogato il polso questo weekend, sì, una sciocchezza, per via di una cattiva impugnatura del mio ferro 7. È nell’interesse dell’azienda, conto su di lei.
IL RESPONSABILE DELLA QUALITÀ (generalmente un gran babbeo, cosa che gli è valsa la nomina). Che idiota questo direttore della produzione a non capire che è nell’interesse dell’Azienda. Adesso gli faccio quel foglio.
LA DIREZIONE (generalmente delle persone riconoscenti). Sapevo di poter contare su di voi anche questa volta.
Chiaramente avete capito che, nel caso di un problema serio, tutti si dimenticheranno cosa è stato detto, ma l’accordo scritto del responsabile della qualità farà sì che sia lui a doversi assumere tutta la responsabilità dell’“errore”. Nessuno gli sarà grato per tutti i rischi che avrà corso al posto della direzione e, se finirà in tribunale, ci finirà da solo.
Allora, mi direte, come lottare contro la frode alimentare se i professionisti stessi non sono capaci di fare pulizia in casa propria?
In realtà, forse sarete sorpresi di sapere che le soluzioni sono note da molto tempo e che sono relativamente semplici, almeno in linea di principio, se non nella loro messa in pratica.
Queste soluzioni sono molto ben riassunte in un rapporto pubblico redatto nel luglio 2014 per il ministero dell’Ambiente britannico dal professor Chris Elliott, esperto di sicurezza alimentare e docente della Queen’s University1.
Lo sradicamento delle frodi alimentari in Europa sarà possibile solo se ci sarà una volontà politica forte seguita dall’applicazione di alcuni dei principi seguenti, la maggior parte dei quali sono semplice buon senso.
In primo luogo, l’interesse dei consumatori deve prevalere su ogni altra considerazione ed essere il fine di ogni sforzo. Ciò significa non attenersi più ai soliti discorsi, politicamente corretti, ma farne una realtà tangibile. I poteri pubblici non devono più soffocare gli scandali alimentari per squallide ragioni economiche dalle implicazioni a breve termine. Le priorità devono essere invertite, la sicurezza a lungo termine privilegiata. Bisogna smettere di proteggere gli industriali, gli ipermercati e il commercio internazionale a scapito dei consumatori, vittime di queste cattive pratiche. Devono essere compiuti degli sforzi reali per informare meglio, per educare, proteggere e per dare fiducia al consumatore.
Bisogna anche mettere in atto una politica di tolleranza zero nei confronti dei professionisti scorretti. Chi froda, chiunque sia, ovunque sia, dev’essere sanzionato rapidamente e duramente, anche in caso di “piccole frodi”. Le indagini devono poter essere svolte senza ostacoli, con mezzi sufficienti, perché siano stabilite le vere responsabilità. Allo stesso modo, le buone iniziative devono essere incoraggiate. Perciò bisogna coinvolgere i professionisti coscienziosi e incitarli a testimoniare e a denunciare le cattive pratiche di cui potrebbero essere a conoscenza o che potrebbero sospettare nell’ambito della loro attività.
L’informazione deve essere centralizzata e meglio condivisa, vale a dire raccolta, trattata e trasmessa a coloro ai quali può essere utile. Tra gli industriali e gli enti governativi, nonché tra gli stati stessi, devono svilupparsi in questo ambito una reale collaborazione e dei veri scambi con le associazioni di consumatori. Ma perché l’informazione sia ben utilizzata, bisogna anche che il coordinamento della lotta contro la frode alimentare sia sotto la responsabilità di un’unica autorità competente e specializzata.
Gli industriali poco scrupolosi approfittano della minima falla e imprecisione del sistema. La minima indeterminatezza nelle procedure e nei testi viene sfruttata a loro vantaggio. Si devono quindi evitare a ogni costo inutili ambiguità e complessità. Bisogna favorire la standardizzazione delle analisi, delle certificazioni, dei controlli. Semplificare e generalizzare le buone pratiche, razionalizzare gli audit, migliorare gli standard.
Le autorità di controllo a livello locale devono essere la punta di diamante della strategia di sradicamento delle frodi alimentari. Sono le più adatte – per la loro vicinanza alle unità di produzione, la loro conoscenza degli attori e delle filiere locali, la loro agilità – a lottare efficacemente contro le frodi a uno stadio precoce. Esse dunque devono disporre dei mezzi sufficienti a portare avanti in modo efficace ogni loro azione.
Educazione, prevenzione, sorveglianza, controlli, sanzioni: tutto questo senza dubbio ridurrà considerevolmente le frodi alimentari, ma sfortunatamente non le impedirà mai al 100%. Perciò quando, nonostante tutto, una frode viene scoperta, devono essere messi in atto meccanismi efficienti di gestione della crisi. Gli allarmi devono essere diffusi rapidamente ed efficacemente, i servizi d’emergenza mobilitati, i prodotti incriminati identificati grazie ai sistemi di tracciabilità e di messa in quarantena.
Come vedete, nulla di complicato, ma bisogna volerlo veramente e dotarsi dei mezzi giusti. Ma immagino che perderete ogni ottimismo apprendendo che, secondo l’Istituto di sorveglianza sanitaria, in Francia ogni anno si verificano ancora oltre 500.000 intossicazioni alimentari, che portano a 15.000 ricoveri e uccidono tra le 250 e le 700 persone. In questo non c’è nulla di sorprendente, quando si sa che una cucina collettiva viene controllata in media ogni dodici anni, e un ristorante ogni trenta. Sicuramente, con i due controlli che ho subito in vent’anni, devo aver fatto salire la media. Nessuna volontà reale, niente mezzi… e centinaia di morti che potremmo evitare.
1. www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/350726/elliot-review-final-report-july2014.pdf
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Epilogo e Consigli dell'Autore
Piccola guida di sopravvivenza al supermercato
Siamo sinceri e diretti: l’unica cosa che interessa agli industriali e alle grandi catene di supermercati è il vostro denaro, non certo la vostra felicità e la vostra salute. Non fatevi ingannare dalle spacconate di quei parolai che vi giurano, con la mano sul cuore e la lacrima pronta, che lottano per il vostro benessere e difendono il vostro potere d’acquisto. È tutta una commedia, una millanteria, nient’altro. Non fidatevi di nessuno, siate vigili e soprattutto siate esigenti!
Dovete rendervi conto una volta per tutte che in fin dei conti siete voi consumatori ad avere il potere. Siete voi che decidete se comprare o meno nei vari reparti quello che vi viene offerto. Usate questo potere per cambiare finalmente le cose.
Ora che siete informati sui tranelli tesi dall’industria agroalimentare e dagli ipermercati, vedremo come mettere in pratica questo insegnamento per evitare di farvi prendere in giro.
L’ideale – e l’unica soluzione radicale – sarebbe naturalmente quella di bandire definitivamente qualsiasi prodotto industriale, e di limitarsi ai prodotti grezzi, freschi, non trasformati. Ma questo, con le nostre frenetiche vite moderne, è diventato illusorio quanto il rimetterci a tesserci le stoffe o a cucirci da soli i vestiti.
Inoltre bisogna riconoscere che i prodotti industriali, i piatti pronti e i cibi in scatola o surgelati sono davvero pratici. Si conservano a lungo, permettono un risparmio di tempo considerevole, e se ne trovano persino certi che sono di ottima qualità. La difficoltà, in realtà, consiste nel riconoscere i buoni prodotti, nel separare il grano dal loglio. Dunque come si fa a sopravvivere nella giungla delle merci?
Consiglio numero 1: controllate le origini
Innanzitutto privilegiate sempre i prodotti locali, regionali e nazionali e, infine quelli che vengono da paesi con una “cultura etica” e una “cultura dell’igiene e della qualità” sviluppate, con norme vincolanti. Sappiate che il sistema di norme e controlli europeo, anche se non è perfetto, è il più rigoroso ed efficiente del mondo. Molto spesso le nuove norme, la proibizione di molecole pericolose e tutti i miglioramenti sanitari sono messi in opera a livello europeo, prima di estendersi lentamente a tutto il pianeta.
Evitate assolutamente i prodotti alimentari cinesi e, seppur in minor misura, quelli indiani, turchi e di altre origini esotiche. Se a volte è possibile trovare qualche ottimo prodotto proveniente da questi paesi, è certo che se ne trovano molti adulterati.
La miglior illustrazione di questo principio di base ve la forniscono i numerosi consumatori cinesi che si affannano come invasati a nutrirsi di prodotti importati dall’Australia, dall’Europa o dagli Stati Uniti, tanto hanno perso la fiducia nei loro produttori agroalimentari in seguito ai troppi e continui scandali.
Tuttavia, cari lettori, di tanto in tanto vi capiterà di imbattervi in qualche anima caritatevole e benpensante che affermerà che i prodotti alimentari cinesi e importati valgono quanto i prodotti europei. Per favore, non ascoltatela. Di certo quelle persone non hanno mai messo piede in una fabbrica agroalimentare né importato prodotti dalla Cina come ho fatto io per anni. Hanno consumato tè imbottiti di pesticidi, zucchero liquido colorato al posto del miele e salse di pomodoro o ketchup fabbricate a partire da pomodori marci senza notare niente di particolare, a parte il prezzo basso.
Tenete a mente i pochi esempi che vi ho descritto e sappiate che non ho menzionato tutti i casi di frode di cui sono stato vittima, la lista sarebbe molto lunga. Per fare solo un esempio (il bicchiere della staffa), penso ai funghi selvatici cinesi: spugnole secche o surgelate piene di sabbia, sale, sassi, viti, bulloni e persino di pallottole di fucile per aumentarne il peso, boleto giallo commestibile mischiato con Boletus felleus non commestibile, porcini secchi innaffiati con acqua contenente pesticidi per guadagnare peso ed evitare il deterioramento… E poi ci sono tutti i prodotti che non ho importato personalmente e che sono senza alcun dubbio soggetti agli stessi imbrogli.
Battetevi anche per una miglior informazione sulle origini dei prodotti. Vi sembra normale che venga indicata come origine geografica: EXTRA UE? Di che paese stiamo parlando? Di quale continente?
Così facendo, vi sarete già portati molto avanti.
A parte che, se l’origine fosse valorizzante, sarebbe orgogliosamente indicata proprio al centro dell’etichetta, come nel caso del Tabasco e del suo made in USA.
Continua con Consigli 2 di 10
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Consiglio numero 2: evitate i primi prezzi
È socialmente difficile da dichiarare ma, sfortunatamente la qualità ha un costo. Sono il primo a dispiacermene, tanto mi piacerebbe che nutrirsi bene fosse un diritto elementare. Ma oggi non sperate di avere il meglio al prezzo dei prodotti di bassa gamma; e, se volete mangiare bene, dovrete spendere un po’ di soldi in più.
Ma vi sembra davvero di sciupare denaro quando, per qualche decina di centesimi di euro in più, acquistate un miele locale anziché un “miele” cinese che in realtà non è altro se non un assemblaggio di glucosio, aromi di sintesi e coloranti?
Vi sconsiglio fortemente di acquistare i prodotti primo prezzo. Generalmente non sono i migliori come rapporto qualità prezzo e, credete alla mia esperienza, è lì che si trova la maggior parte dei prodotti scadenti. Perché è evidente che proprio sui prodotti primo prezzo c’è la pressione più forte sui costi, e dunque i rischi più elevati. Bisogna comprare meno, ma comprare meglio.
Più in generale, come fanno tutti i compratori professionisti, diffidate dei prodotti che costano troppo poco per essere onesti, delle “super-promozioni”, degli sconti o degli alimenti vicini alla scadenza. Perché un venditore dovrebbe sbarazzarsi di un prodotto di qualità?
Sappiate che, in ambito alimentare, i “buoni affari” solitamente non lo sono affatto. In ogni caso, non per il consumatore e per la sua salute.
So bene che, in questi tempi difficili, molte persone hanno un magro bilancio e che per loro indirizzarsi verso i primi prezzi è una necessità. Ma lasciate che vi ricordi che l’alimentazione oggi rappresenta appena il 15% del budget medio dei francesi. Non si è mai speso così poco per nutrirsi, anche se la maggior parte di noi può fare lo sforzo di pagare il giusto prezzo per un buon prodotto. Però bisogna volerlo, e forse si deve riflettere meglio sulle proprie priorità in termini di spese.
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Consiglio numero 3: privilegiate le grandi marche
Per un determinato tipo di prodotto, solitamente potete scegliere tra un primo prezzo, un marchio del distributore e una grande marca. E, naturalmente, i prezzi vanno in crescendo.
In realtà, i prodotti primo prezzo di solito appartengono ai distributori, ma sono commercializzati con un marchio differente perché la loro immagine non venga associata a prodotti di qualità scadente. E, siccome in ogni caso vi ho appena consigliato di evitarli, la scelta del consumatore avveduto si limiterà al marchio del supermercato (cioè la versione di cui ci si assume la responsabilità) o alla grande marca.
Inutile far durare la suspense: i prodotti delle grandi marche sono nella stragrande maggioranza dei casi di miglior qualità. I prodotti a marchio del distributore sono essenzialmente delle copie, dei cloni più o meno riusciti dei prodotti leader, fabbricati da piccoli industriali spremuti dalle catene di distribuzione. Confezioni, colori, forme, dimensioni, tutto è plagiato, persino i nomi, senza che le grandi marche possano dire niente, pena la perdita del loro posto sugli scaffali.
Non sono un gran teorico ma uno che lavora sul campo, parlo semplicemente della mia esperienza. La mia società fabbricava un sacco di prodotti per i marchi dei distributori, e posso assicurarvi che erano sempre di qualità inferiore alle marche leader, nonostante facessimo tutto quello che potevamo perché la cosa non si notasse. Per arrivare ai prezzi più bassi, gli ingredienti erano meno nobili, le ricette meno ricche, i formati più scarsi, i processi meno precisi, gli additivi più numerosi…
Se avete i mezzi per farlo, offritevi le grandi marche, è una garanzia supplementare di qualità… anche se, è vero, non assoluta.
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Consiglio numero 4: evitate polveri e puree
Avete imparato che è molto facile nascondere le imperfezioni di molti prodotti attraverso la loro trasformazione. Le spezie di cattiva qualità o con impurità vengono ridotte in polvere, così come i frutti bacati sono trasformati in passate, le verdure ammuffite in puree, i cavalli interi in macinato di manzo…
Quindi comprate in primo luogo i prodotti interi, in modo che i loro difetti siano visibili e la purezza verificabile. Scegliete il pepe in grani piuttosto che in polvere e le mele intere piuttosto che in poltiglia.
Quando ve ne viene data la possibilità, prendete innanzitutto cibi interi, poi a pezzi, e solo come ultima spiaggia optate per polveri o puree.
Questo semplice consiglio vi avrebbe tenuti alla larga dalle carni tritate di composizione incerta e in via accessoria vi avrebbe evitato di mangiare lasagne al cavallo.
Evitate anche i prodotti impanati, come i bastoncini fritti surgelati di poltiglia di pesce o i nugget di pasta di carne. È roba molto grassa, non arreca alcun beneficio alla salute, a paragone di un vero filetto di pesce o di una semplice fetta di carne, e non si sa mai cosa nasconde.
Consiglio numero 5: controllate bene le liste degli ingredienti.
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Consiglio numero 5: controllate bene le liste degli ingredienti
Siate pratici, dimenticate la storia che vi raccontano e interessatevi al prodotto nella confezione e alla lista dei suoi ingredienti. Un biscotto del supermercato non è nient’altro che un prodotto industriale, e uno yogurt è solo latte fermentato. Quello che deve contare, per il consumatore avveduto, è la qualità degli ingredienti e della ricetta, nient’altro.
Un consumatore che si preoccupa della propria salute e di quella dei suoi familiari deve saper leggere una lista di ingredienti, o almeno saperne decifrare l’essenziale. Non è così complicato, se si sa cosa guardare.
Per prima cosa, evitate assolutamente i prodotti universalmente riconosciuti come nocivi per la vostra salute:
– gli oli idrogenati (utilizzati come conservanti e agenti testurizzanti, contengono grassi insaturi artificiali molto nocivi per il vostro organismo e sono presenti soprattutto in pasticceria, torte salate, biscotti…);
– i coloranti chimici (famiglia di additivi E100), alcuni dei quali devono essere etichettati con l’indicazione “Può influire negativamente sull’attività e l’attenzione dei bambini” (sic!);
– i conservanti chimici (essenzialmente la famiglia E200);
– l’alluminio in tutte le sue forme. È una sostanza neurotossica, utilizzata come colorante (E173) o come addensante sotto forma di solfato di alluminio (da E520 a E523).
Cercate anche di fare a meno dei prodotti che non vi forniscono niente e possono causare seccature più o meno a lungo termine:
– il glutammato monosodico e derivati, da E620 a E625;
– i dolcificanti intensivi come l’aspartame e il ciclamato, E951 ed E952;
– tutti i prodotti esausti, come i baccelli di vaniglia, che contengono tracce di solventi organici cancerogeni.
Quando è possibile, preferite gli estratti naturali alle molecole artificiali. Ma evitate anche quelle che vengono chiamate le “sostanze identiche a quelle naturali”. Cercano di farvi credere che le molecole di sintesi, artificiali, prodotte dalla chimica, siano esattamente le stesse di quelle che si trovano in natura. È falso!
Perché, anche se le formule chimiche di base sono le stesse, esistono enormi differenze nelle forme spaziali di queste molecole (i cosiddetti isomeri), nelle purezze e infine nella loro assimilazione da parte dell’organismo.
La vitamina E di sintesi, per esempio, alfa-tocoferolo per gli amici, è un cocktail di otto molecole dalle formule chimiche di base identiche ma di forme differenti. La vitamina E naturale, che si trova in abbondanza nei semi e nella frutta secca, ha un’unica forma. È questa forma naturale che i nostri organismi utilizzano da milioni di anni e a cui si sono perfettamente adattati. Per questo la vitamina E naturale è dalle due alle tre volte più attiva nel nostro organismo e molto meglio tollerata rispetto alle forme “identiche a quelle naturali”.
Per riassumere, privilegiate i prodotti con il maggior numero di ingredienti naturali, una composizione semplice e il minimo di additivi.
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Consiglio numero 6: controllate le confezioni
Focalizzatevi sul contenuto, sul prodotto, non sul contenitore. La vostra attenzione deve essere rivolta verso quello che mangerete, non verso quello che ingombrerà le vostre pattumiere. Non lasciatevi trarre in inganno dalle belle confezioni, un cartone spesso, un colore simpatico, una foto carina, una doratura o un nome alla moda. Diffidate delle affermazioni totalmente inverificabili dei produttori, delle menzioni valorizzanti indefinite, degli pseudo-marchi di qualità, o delle ovvietà scandite come garanzie di qualità. La forma esteriore non conta, se c’è la qualità.
Non comprate prodotti secchi (pasta, lenticchie, corn flakes…) in confezioni di cartone riciclato imbottito di oli minerali cancerogeni nel caso in cui il prodotto sia direttamente a contatto con la carta. La carta riciclata farà magari anche bene al pianeta, ma fa sicuramente molto male a noi.
Evitate a ogni costo le confezioni in plastica dette “oxobio” o “oxo biodegradabili”. Non sono realmente biodegradabili, ma frammentabili in microparticelle solitamente a base di polimeri sintetici molto inquinanti.
Non comprate le confezioni “che fanno ecologico” senza esserlo, come un foglio di cartoncino incollato su una pellicola di plastica (esperienza vissuta): unendo in un imballaggio composito dei materiali che prima erano perfettamente riciclabili, si ottiene il solo risultato di renderli non più riciclabili.
Sempre nell’ambito delle confezioni, molti si chiedono se ci sia una differenza tra le scatolette e i barattoli di vetro. Un barattolo di vetro è trasparente e il suo contenuto si vede. Gli industriali saranno dunque costretti a mettere i più bei prodotti nei barattoli di vetro, mentre lo scatolame lascia più libertà.
In più, l’interno delle scatolette è ricoperto di vernici (lattine di bibite comprese) che sono assenti nei barattoli di vetro. Queste vernici contengono bisfenolo A, un perturbatore endocrino vietato in Francia dal 1° gennaio 2015… ma non altrove.
Quindi, vantaggio molto netto per il vetro, sotto forma di vasetto o di bottiglia.
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Come promesso tempo fa, qui vorrei postare un intero libro un bet seller si tratta Christophe Brusset che ha lavorato per diversi anni nell'industria agroalimentare come dirigente di alto livello per importanti aziende del settore. Nel 2016 ha pubblicato Siete pazzi a mangiarlo!, questolibro è andato a ruba per i suoi contenuti veritieri e senza peli sulla lingua. Si tratta di cibo che compriamo nei supermercati, negozi, al mercato, in varie forme di confezione scatolette, barattoli, buste ecc.ecc.. ci spiga cosa mangiamo ovvero il cibo Spazzatura nei minimi dettagli cosa contiene e come viene fatto, lavorato e confezionato, Cose che minimamente ci sogneremmo di trovare nel Cibo, Vi dico già in partenza che è molto lungo pertanto lo dividerò in vari parti e capitoli così sarà più facile e rilassante da leggere.
Sempre sè.... @Baptiste mi dà L' OK !
Buona Lettura