Osteoporosi, osteopenia e la corretta attività fisica
Pubblicata il 20 giu 2018
Molto spesso quando si parla di prevenzione o cura dell'osteoporosi viene consigliata genericamente una imprecisata attività fisica. Alla fine ciò comporta che pochissime persone tra le tante che potrebbero trarne giovamento si dedicano a svolgere quella corretta attività necessaria a prevenire o curare l'osteoporosi e il suo evento patologico, la frattura da fragilità.
Per arrivare tuttavia a comprendere quali sono gli esercizi che potrebbero essere utili, bisogna forse partire da lontano e precisamente dalla funzione del calcio nell’organismo umano e dalla sua enorme importanza per la nostra stessa vita.
Il calcio elemento fondamentale per la contrazione muscolare. Il calcio o meglio lo ione calcio entrando all’interno delle cellule del nostro organismo, svolge numerose funzioni tra le quali quella importantissima di innescare il fenomeno della contrazione nelle cellule muscolari; ed il muscolo più importante del nostro corpo è il cuore.
Quindi senza calcio il cuore non batte.
A causa di questa enorme importanza la quantità di calcio presente nel sangue non può modificarsi al di sopra o al di sotto di certi valori. Ed è allora che interviene il tessuto osseo. Esso infatti è il più i mportante deposito di calcio del nostro organismo e lo scambia in continuazione con il sangue per non incorrere in pericolose riduzioni della quantità necessaria a far funzionare i nostri organi, cuore in primis. In questo continuo scambio l’osso va incontro ad una ininterrotta evoluzione che prende il nome di rimodellamento, nel senso che, cedendo il calcio lo che lo irrobustisce, una o meglio più parti microscopiche del tessuto osseo si indeboliscono e pertanto devono essere sostituite, appunto rimodellate. Lo stimolo a questo rimodellamento viene dato da molti fattori tra i quali uno molto importante è rappresentato dalla gravità. E qui entra in gioco l’attività fisica.
La forza di gravità
L’osso, infatti, risponde alle sollecitazioni meccaniche delle quali la più semplice è l’accelerazione di gravità che si determina con i movimenti. Gli stimoli meccanici, tuttavia, devono essere percepiti dal tessuto vivente che deve poterli trasformare in processi biologici, che attraverso complesse vie di interazioni biochimiche sono in grado di trasmettere l’informazione dall’ambiente esterno nel quale tali stimoli si originano sin all’interno della cellula e dal suo nucleo affinché questo possa reagire adeguatamente ad essi. Sin dall’ormai lontano 1997 un autore americano, il dottor Frost, formulò una ipotesi tendente a quantizzare la reazione del tessuto osseo ad un carico dinamico, denominata the Utah paradigm of skeletal physiology, dall’Università dove egli lavorava indicando anche le entità del carico cui sottoporre un osso affinché questo fosse stimolato a produrne di nuovo. Era forse questo il primo tentativo di dare una spiegazione scientifica alla legge osservazionale indicata come the Wolf low che era stata teorizzata basandosi su basi morfologiche sin dal 1860 circa. Frost individuava una unità di misura denominata microstrain che indicava una deformazione dell’osso pari ad un milionesimo di millimetro.
La legge di Wolf e il the Utah Paradigm
Il carico cui sottoporre l’osso affinché venissero attivati tutti quei processi fisiologici e biochimici che conducevano al suo rinnovamento e o irrobustimento era compreso entro certi valori di microstrain. Al di sotto di tali valori non vi era alcuna influenza sul rimodellamento osseo, anzi esso subiva un processo di depauperamento, mentre al di sopra l’osso non era più in grado di sopportare il carico ed andava incontro a rottura. Qualora le sollecitazioni meccaniche non siano presenti o siano insufficienti, non solo non si ha un rapporto neutro tra deposizione e riassorbimento della matrice ossea ma, al contrario, si verifica un effetto catabolico, distruttivo, come ampiamente dimostrato dagli studi dell’ente spaziale americano sugli astronauti e come chiunque abbia avuto la sventura di subire una frattura trattata con apparecchio gessato e quindi con immobilizzazione prolungata, ha potuto sperimentare. Per interpretare questi meccanismi di accoppiamento tra il carico meccanico e la risposta biologica è stato coniato il termine di meccanotrasduzione che rappresenta quella sequenza di eventi che da un carico meccanico applicato ad una struttura biologica, attraverso una serie di correlazioni, macro-microscopiche e molecolari, porta ad una variazione della struttura biologica stessa. Nel 2010 gli autori Bidwell e Pavalko pubblicarono un lavoro che teorizzava la meccanica dell’accoppiamento tra il carico cui viene sottoposto l’osso e le modificazioni da esso indotte. Infatti le cellule che producono il nuovo osso, gli osteociti e gli osteoblasti, sono, come tutte le cellule del nostro organismo, circondate da un infinitesimale straterello liquido chi è il liquido interstiziale. Questo liquido, ancorché infinitesimale, esercita comunque una pressione sulla superficie delle cellule, anche in condizioni di assoluto riposo, pressione che aumenta a causa del movimento.
Fluid share stress ovvero la pressione del liquido interstiziale
La stimolazione fisica della membrana attiva complessi multiproteici (definiti meccanosomi – mechanosomes-), mentre contemporaneamente, si spostano i geni bersaglio in posizione utile per entrare in contatto con i meccanosomi in arrivo, portatori delle informazioni meccaniche al nucleo. È evidente che qualora lo stimolo applicato non sia sufficiente all’attivazione dei trasduttori meccanici, nulla avviene: l’osteocita non si trasforma in osteoblasto, l’osteoblasto non depone nuova matrice collagene, la matrice ossea non si calcifica e pertanto avremo solamente la rimozione del l’osso vecchio ed indebolito ma non la sua sostituzione con il più resistente osso nuovo. Dalla serie di eventi sopra riportati si deve quindi trarre un insegnamento che è rappresentato dalla importanza della entità del carico cui l’osso deve essere sottoposto per poter reagire in misura utile al suo rinnovamento. Carichi quindi non sufficientemente sostenuti non sono in grado di stimolare una corretta risposta e pertanto non tutti i tipi di attività fisica sono da considerare funzionali al recupero ed al mantenimento della massa ossea.
I periodi delle nostre ossa
Se valutiamo i cambiamenti del tessuto osseo per scandire i periodi della nostra vita, possiamo individuare alcuni cicli ben distinti gli uni dagli altri. Dalla nascita alla pubertà e poco oltre sino ai 20 anni circa, l’osso si evolve in modo tortuoso a crescendosi sia in dimensioni che in contenuto di calcio, spinto prevalentemente da fattori ormonali, ma anche, pur se in misura minore, dalla continua attività fisica che è tipica di queste età. Dai 20 ai 30 anni l’osso si accresce ancora in densità raggiungendo il cosiddetto “picco di massa ossea” che poi rimane quasi stabile sin verso i 40 anni con minima perdita di massa.
Il picco di massa ossea
Da questa età in poi i fattori catabolici, cioè riduttivi, prevalgono su quelli anabolici, cioè di ricostruzione, dell’osso e si inizia un lento declino della sua densità; il sostegno ormonale rallenta, prima nel sesso femminile ma anche in quello maschile, riducendo la propria influenza sui meccanismi di rimodellamento osseo. Ed è quindi tra i 40-45 anni e dei 65-70 anni che si gioca una importante partita per contrastare un declino inizialmente lento ma successivamente sempre più veloce della qualità dell’osso, sempre meno influenzato da fattori ormonali e sempre più da corretti stili di vita. Infine dai 70-75 anni in poi alcuni fattori, non direttamente correlati al tessuto osseo, facilitano ancor di più che non negli anni precedenti, l’espressione finale della malattia Osteoporosi: cioè l’evento fratturativo.
Seguendo questa distinzione, più pratica che scientifica, anche se basato su evidenze ampiamente accettate dalla comunità internazionale, potremmo valutare quali possono essere le attività fisiche più adatte nei periodi di maggior depauperamento della massa ossea.
Tag Medicina - Dott. Gianfranco Pisano
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