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La descrizione della mia depressione
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Andare all'ultimo commentoEx membro
E' per questo che avevo scritto di non essere stata tanto retta e che, rivolgere a me stessa una violenza, in alcun modo fa della sottoscritta una persona di levatura morale.
Altrettanto credo che, eccezion fatta per casi limite come il suicidio, molte altre persone che accusano varie forme di depressione, ansia sociale e via dicendo, possano vivere in modo squilibrato il senso del dovere e /o la forte dicotomia che è oramai presente nella vita di tutti i giorni:essere e dover essere,intesa sia nel mondo lavorativo, sia in qualunque altro campo.
Non mi sono mai sentita di giustificare,morale, il mio atto di violenza.
Ex membro
Ripensavo alle parole di @FlameBurning. Giustamente mi chiedeva di smettere di pensare a me stesso, ma di chiedermi come reagirei se mio figlio dovesse cadere nella tossicodipendenza oppure se dovesse tentare il gesto estremo di togliersi la vita. E' tutt'oggi che mi interrogo su queste parole, le stesse che un mio caro amico mi ha rivolto qualche giorno fa, quindi ancora più necessitanti di una risposta. Se alla notizia della scomparsa di mio figlio dovessi dire:" è stato uno sciocco" oppure "ha fatto una cretinata" penso che andrei a infangare la sua memoria. Vorrei pensare invece che il suo atto violento abbia un fondamento razionale, che il suo comportamento sia stato indotto da una necessità ineluttabile: mi aiuterebbe ad avere un perché, mi permetterebbe di ricordare mio figlio come una persona che fino all'ultimo si è interrogato e che ha dimostrato maturità. Vivrei il suo atto con egual dolore, ma con la consapevolezza che non è stato uno sciocco, che non ho cresciuto una persona senza cervello, imbevuta di vittimismo e scarsa stima di se. Forse il mio pensiero è molto opportunista, forse è un tentativo di nascondere le mie responsabilità, ma due mesi fa, mentre ero in Irlanda, mi era giunta la notizia del suicidio di un ragazzo la cui famiglia è molto legata alla mia. Conosco i suoi genitori: persone splendide, di grande altruismo e onestà, che hanno cresciuto questo ragazzo con attenzione e amore. Non riuscirei mai a pensare che abbiano delle responsabilità nella morte del loro figlio, in quanto troverei questo pensiero infamante.
Riflettevo anche su un altro punto. Sempre più persone chiedono il riconoscimento legale della "dolce morte", perché per molti è ingiustificato vivere tanto dolore quando già sai l'esito della tua malattia. Nei mille discorsi che ne sono conseguiti si è sempre parlato di persone che stanno vivendo malattie allo stato terminale: mi chiedo se la depressione possa raggiungere la metastasi, arrivando quindi al punto di poter non essere più curata. Io credo che sia possibile in quanto malattia al pari del cancro.
Chiedo scusa a tutti, ma continuo a condividere i commenti che ho scritto precedentemente. Continuo a credere che il suicidio nasca da un dilemma, da una lucida attività di pensiero e da una questione etica. Voglio credere che sia una scelta ponderata tra il terrore del fuoco e il terrore della morte. E' un atto di fede il mio, forse puerile come scrive @FlameBurning, ma non so rinunciarvi. Voglio credere anche per questo ragazzo che ci ha lasciato due mesi fa, perché sono stufo di vederlo oggetto di opinioni spietate e senza appello.
Ex membro
Rispondo per chiarire alcune essenziali cose. Il primo punto è che non si parla d'infangare memorie, altro trucchetto molto labile per tirare acqua al proprio mulino. Non ho detto questo quindi non credo sia una risposta calzante alle mie domande. Secondo: il suicidio è una disperato ricerca d' aiuto fatta tramite un gesto irrazionale (trovarci razionalità è alquanto inquietante). Terzo: mai detto che i genitori di un suicida siano cattive persone. Neanche chi lo fa lo è. (Cercavo di far capire che però legittimare un atto di violenza è la strada più semplice specie per chi sta accanto al sofferente). Quarto: trovo paragonare la depressione al cancro un insulto a coloro che devono ficcarsi la morfina dentro le vene. (Con questo non dico la depressione sia una pillola,anzi....) Trovo la depressione difficile e complessa, ma guaribile. (Il tuo discorso su questa similitudine è un nuovo segno d' infantilità e autocommiserazione che non porta alla guarigione). Quinto: il suicidio non è un valore etico, ma atto di disperazione acuta. Innalzarla a vessillo di eticità è sinonimo di profonda superficialità. Anche infantile. Sesto: ho visto fin da bambino persone con la malattia della depressione quindi capisco e comprendo. Ma ciò non vuol dire spingerle nel baratro con la commiserazione, io per le persone che amo c'ho sempre lottato. Anche a costo di farmi odiare. Ma c' ho lottato. Non le ho assecondate, sarebbe stato un atteggiamento codardo. Sesto: sei uscito fuori dal discorso. Fare i miei discorsi non vuol dire sputare sulla memoria di persone. Vuol dire cercare di non far sì che ricapitino. Non capirai mai. Mi crederete egoista e spietato. Non fa niente. Fa parte del gioco. Del ruolo che ho deciso d' avere quando vedevo persone morire di tristezza e decidevo di non assecondarle ma spronarle a vivere. Purtroppo non capirai o capirete mai. Ma fa nulla. Preferisco essere odiato per far del bene che amato mentre faccio del male. Settimo: la metastasi ti morde la vita e sputa l' ossa mentre crepi. Impossibile lottarci. La depressione anche se molto complessa si può vincere.
Ex membro
Sono cinico. Ma credo che è essenziale combattere. Per me combattere fin da quando ero bambino era cercare di aiutare le persone ad uscire dalla fossa che si erano create. Non era dirgli che stare dentro quella fossa fosse giusto. Questo, come ripetuto ieri, è l'amore. Mettere una persona nella fosse e ficcarci la terra sopra ( metafora del legittimare) è un gesto che si compie con la commiserazione. E questo mi mette tristezza. Molta tristezza. Mi dispiace essere così cinico, ma i tuoi bla bla bla Alessandro mi hanno non tanto scosso ( non mi scuoto per così poco) ma gettato un mantello di cupa malinconia perchè penso a quanto è facile sembrare profeti quando invece si imbocca la strada più semplice. Come in molti fanno. In questo caso, mi dispiace dirtelo, non è la massa diversa da te ma tu immerso nella massa.
Non disturbo più. Ne scriverò più altro.
Giorni felici a tutti.
Ex membro
SPERO CHE QUESTA LETTERA POSSA FARVI CAPIRE L'IMPORTANZA DELLA VITA (e quanto troppo spesso ci lamentiamo e basta senza apprezzare ciò che abbiamo. Spero possa far capire la stupidaggini di certi paragoni. Spero possa farvi capire di essere fortunati. Spero possa far capire che a volte ci lamentiamo per compatirci. Spero possa far capire l'importanza della vita e la follia nel legittimare un suicidio)
Lettera di un malato terminale a sua figlia (monologo)
È già da alcune settimane, che penso di scriverti. Poi i dolori, l’abbandono agli effetti dalla morfina, le lunghe visite degli amici, le letture per distrarmi..., tutto ciò me lo ha impedito.
Ho provato a scriverne altre, di lettere, in quest’ultimo anno e mezzo, ma ad un certo punto mi bloccavo, le facevo in mille pezzi e le buttavo via. Erano per tuo fratello, il quale, per la notevole differenza d’età ti ha sempre considerata il suo giocattolo, ma che ormai, preso fra studi, ragazza ed amici quasi non vedi più a casa; per la mamma; e per poche altre persone care.
Fu forte, l’impulso a cercare di lasciare pensieri scritti, dopo l’atroce verdetto di quell’11 novembre. C’era nebbia; silenzio, nell’aria; buio. Ero voluto andare da solo, in ospedale a ritirare le analisi. Stavo bene, sembrava fosse una sciocchezza: “faccia questi esami – mi aveva detto il dottore – , solo per toglierci il dubbio”.
Ed il “dubbio” in quel momento era collassato; ma sull’altro versante: quello dell’inferno. Pretesi la verità. Feci domande mirate. Mentii, dicendo che non sarei tornato a casa da solo, che c’erano due amici che mi aspettavano, giù al bar. La dottoressa si rese conto di avere di fronte una persona logica e determinata e non oppose resistenza.
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Avevamo festeggiato il mio compleanno, poche settimane prima. Il 21 ottobre. Quarantasette anni. Mi aiutasti a spegnere le candeline, poi facemmo progetti per il futuro. Tutti segreti fra me e te, ce lo giurammo.
“Progetti”! Si sciolse il significato della parola, nella mia mente, quella mattina, appena varcato l’uscio dell’inquietante cubo di cemento avvolto nel grigiore.
Assicurai a me stesso che non avrei esalato il mio ultimo respiro là dentro.
Al ritorno guidai piano, pianissimo. Un tir che avevo dietro stava per travolgermi, nel fitto delle bianche goccioline d’acqua sospese nell’aria. L’autista suonò come un pazzo, lo vidi imprecare e gesticolare; mi feci da parte per farlo passare avanti. Avrei voluto dirgli: “Che fretta c’è? Ci dimeniamo come matti solo per non pensare alla fine che ci tocca, prima o poi. L’unica differenza fra noi è che io so dov’è il mio capolinea. E tu no. Ma cosa sono dieci anni in più o in meno rispetto all’eternità?”.
Poi rinsavii. Aveva ragione lui.
Una volta a casa, poggiai le carte sul tavolo e per due giorni interi non dissi una sola parola. A te lasciai intendere che non potevo parlare perché avevo mal di denti.
“Il linguaggio è la casa dell’essere”, aveva scritto da qualche parte un pensatore che immagino ora tu conosca. Mi resi conto, quel giorno, che forse era vero. E per questo io non riuscivo a parlare. Non sentivo più il possesso del mio essere; e di conseguenza, non riuscivo ad entrare in quella “casa”.
Ma il terzo giorno, un sabato mattina, mi svegliai con animo diverso e decisi di tornare alla normalità. “D’accordo – mi dissi – , prendiamola 2
così: sarebbe potuta finire in un altro momento, magari in maniera brusca, come succede a tanti altri. Non è andata in tal modo. Pazienza. Ora sei come un pellegrino nel deserto; con una sola boraccia piena d’acqua; Sai che devi farne tesoro; bevi lentamente ed a piccoli sorsi, finché ne hai a disposizione; non puoi permetterti di sprecarla; ne apprezzerai il sapore come non avresti mai immaginati potesse essere possibile.
E così sono arrivato fino ad oggi, superando le aspettative vita di oltre un anno. Probabilmente anche grazie all’assunzione di tale atteggiamento, suggeritomi dalla necessità e dagli affetti. La mente ha un gran potere, sul corpo.
Ma ora sento di essere davvero alla fine. Ho chiesto a tua madre di inventare qualche scusa e di non far entrare più nessuno, in questa stanza. Fatta eccezione per te. Questo è il quinto giorno che trascorro così: in silenzio, con tanto libri che non aprirò mai più, e carta bianca sul comodino; e tu – chissà se ne serberai memoria! – che ogni tanto arrivi, giri attorno al mio letto, sali su e ti sistemi a cavalcioni sulle mie gambe, mi abbracci facendomi tante domande e riempiendomi le guance di baci. Quando la tua esuberanza mi provoca dolori, cerco di nascondertelo. Il tuo è l’unico sguardo che riesco a sopportare a lungo: poiché l’età ti porta ad essere completamente immersa nel tempo delle cose e degli eventi; e così diventi la più saggia di tutti, dato che per me, ormai, non esiste che un morso di presente da consumare. E marcio, anche.
Tutti gli altri, non riesco a guardarli negli occhi. Mi dicono che ce la farò, che la fase critica è passata.
So che non è vero. Ma sarebbe sadico, proiettare nei loro animi fragili l’autocoscienza limpida che ho della morte. È probabile che loro, 3
questa mia consapevolezza, l’abbiano intuita e fingano a loro volta. E così continuiamo ad andare avanti senza troppa discontinuità, in questa commedia pirandelliana che è l’esistenza.
Del resto, è la soluzione migliore per tutti.
La vita è come un prezioso oggetto di cristallo buttato giù da un
dirupo subito dopo essere stato costruito. Non si sa quanto la voragine sia profonda: solo approssimativamente, in media; e mai il preciso momento dell’impatto. Può anche venir fuori uno spuntone; in qualsiasi istante, sin dall’inizio del percorso; oppure, un difetto di “costruzione”, o altro, può far sì che la struttura non regga a lungo all’attrito con l’aria. Nel migliore dei casi, c’è solo da attendere, senza pensarci, l’avvicinarsi del fondo buio; ad una velocità sempre più rapida man mano che si va avanti, nel tunnel del tempo.
Gli animali, forse, si accorgono della fine solo all’ultimo istante. L’uomo, invece ne diviene consapevole sin dall’infanzia. Ma in maniera dapprima vaga, quasi irreale; poi ignorandola, come se fosse cosa improbabile, alla stessa stregua di riuscire a diventare ricchissimi giocando casualmente un euro al lotto.
L’ignoranza del “quando” e del “come” avverrà, lo aiuta in qualche modo a sentirsi immortale, con tutto il bene ed il male che ciò comporta.
Solo la vicinanza di un moribondo, ridesta dall’assopimento e fa emergere il pensiero, sepolto nella coscienza. Si ride con chi ride; si piange con chi piange. Un po’ ci si affaccia nell’ombra della propria morte con chi muore.
Così tutti pensano di dovermi consolare. Ed anche per questo, ho scelto di non vedere più nessuno. Dovrei essere io, a consolare loro; a 4
scusarmi – soprattutto con te – per non essere riuscito a portare a termine quanto dovevo e volevo fare.
Non ho paura. Sono solo arrabbiato. La consapevolezza di dover morire mette solo imbarazzo. Me ne vergogno.
Stamattina è passato Michele. Forse per l’ultima volta. Ci hai fatto amicizia anche tu, a furia di vederlo a casa.
La sua presenza non mi ha mai dato fastidio: mi ha attaccato la flebo mentre sparava una delle sue solite battute. Lui è abituato a camminare sul bordo; e lo ha vinto da tempo, il terrore della fine riflessa nell’abisso degli altri. Mi ha guardato come lo avrebbe fatto se mi avesse incontrato in un bar, in un giorno qualsiasi, in una situazione diversa, banale, quotidiana. Eppure deve aver capito. Gli ho rifiutato la dose quotidiana di morfina.
Mi sento stranamente bene, oggi. Penso che potrei mettermi in piedi, con un po’ di buona volontà. E questo non può che significare una cosa: l’inizio della fine. Lo avevo sempre sentito dire, che i malati terminali qualche ora prima dell’istante fatidico migliorano notevolmente. Non so se esista una spiegazione scientifica, per questo. Io però una idea me la sono fatta: la sofferenza, nell’organismo vivente, non è un fardello imposto da una Natura cinica e sadica; è uno stimolo alla difesa, anche se spesso esagerato ed inutilmente protratto nel tempo. Ma quando davvero nulla è più possibile, è lo stesso corpo a rendersene conto: ed allora si prodiga per rendere la sua stessa fine più dignitosa. Scaricando a valanga le droghe naturali delle cui riserve esso abbonda.
Ecco perché sto vivendo uno stato di benessere fisico e di beatitudine mentale. Quanti pensieri chiari e distinti; quanti ricordi nitidi. Quante cose potrei fare se avessi a disposizione anche solo un altro mese, in questo
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stato. Invece devo affrettarmi. Completare e sigillare questi fogli, affidarli a tua madre e raccomandarle quando e come darteli; poi salutarvi, abbracciarvi trattenendo le lacrime. Ho cercato di prepararti, a ciò che sta succedendo, in queste ultime settimane: ti ho raccontato come meglio potevo il mio punto di vista sul senso dell’essere al mondo; di quanto sia effimera questa realtà; della felicità che mi avresti donato serbando di me un ricordo non inquinato dal dolore per la mancanza; perché forse dovevo andar via col corpo – ti ho detto – ma che sarei rimasto nella tua memoria per sempre. Ti ho anche regalato dei libri, da leggere quando fossi stata abbastanza grande per comprenderli: Platone, Spinoza, Schopenhauer... Anche tutti gli altri, li ho lasciati a te. Chissà se ne hai letto qualcuno; se ti hanno aiutato a capire; se li conservi ancora.
Stanotte ho sognato tanto. Ho vagato per luoghi e coscienze. Ricordo due occhi neri, ed un sorriso. Poi sei comparsa tu. lo ero già morto, ne ero cosciente, ma non coglievo la differenza con l’essere vivi. Condividevamo uno spazio irreale e ci capivamo senza bisogno di parlare. Stavamo bene: “Visto che avevo ragione a dirti di non preoccuparti? Sono rimasto con te. Dillo a tutti, che la morte non esiste, e che la vita è solo un’illusione delle nostre menti”. Questo, ti dicevo accarezzandoti.
Quando mi sono svegliato non avevo dolori. Ed ho capito.
‘Ora, non mi resta che cercare di raccoglierla fra le mani, l’essenza del mio essere’, ho pensato. Gli occhi dapprima chiusi, poi socchiusi, infine spalancati; il corpo debole, arreso alla gravità, ma estraneo alla mente; non avvertivo neanche più lo scorrere del tempo: solo un lungo
presente.
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Sono stato felice di essermi destato per l’ultima volta nel letto di casa. Quello che era giusto tentare, è stato fatto qui. Non l’avrei sopportata, una fine così lenta e lucida in un ospedale; dove l’accettazione della malattia e della morte perde finanche la sua aura d’eroismo.
In fondo, mi sento fortunato. La fine dell’abisso era là che attendeva. Non era che una questione di tempo. Sono sempre stato terribilmente curioso. In tutto vi è del bene e del male. Troverò del bene anche in quest’ultima esperienza rapida ed intensa.
È estate. Non saprei dire l’ora; non hanno più alcun senso per me gli orologi. È quasi buio. C’è qualcosa che comincia a non andare, è ancora impercettibile, ma lo sento.
Morirò questa notte.
Ho posato i fogli sul comodino e ti ho chiamata. Mi ha dato
un’emozione terribile, sapere di poterti guardare ancora una sola volta; non sono riuscito a parlarti. Doveva essere così per quelli che si imbarcavano su un bastimento per l’America. È vero, c’era sempre la speranza, ma anche la vita a rendere insopportabile il distacco. Io non ho speranza, ma non avrò neanche più una mente per pensare.
Ti ho solo detto che mi bruciavano gli occhi, che ero stanco; e che dovevi andare a dormire dalla zia. Quando sei andata via, convinta di tornare al mattino e ritrovarmi, ho completato in fretta queste ultime righe sperando che arrivasse presto ciò che doveva arrivare.
Ho pensato ai pochi, pochissimi che avrei voluto davvero vedere e non potevo. Avrei voluto ringraziare coloro che mi hanno curato, che si sono prodigati per risparmiarmi quantomeno la sofferenza. In questo letto che è mio e che mi consola.
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Non passano mai, le ultime ore.
Ora chiuderò la lettera in una busta sulla quale scriverò il tuo nome. “Da aprire non prima del 23 giugno 2021”, vi aggiungerò. Non so neanche bene perché sto facendo questo. Forse un è modo per continuare ad esistere su un immaginario ponte proteso oltre la morte. Per ricordarti che sono ancora con te, dopo tanti anni. Per lasciare un’impronta di questi ultimi istanti vissuti serenamente.
Goditi sempre il tempo, amore mio, epurandolo dalle impurità inessenziali.
Non le sopporto proprio, queste ultime ore. Non hanno senso. Non hanno un futuro in cui sbocciare.
Aspetterò la fine pensandoti.
Ex membro
siate felici ragazzi.
Giorni felici.
https://it-it.facebook.com/ilda.cucca/posts/3379905709883 qui c'è il link della lettera.
Ex membro
Dire che la depressione sia una malattia come le altre non è una opinione, è una realtà scientifica riconosciuta da medici e psicoterapeuti. È una malattia che presenta caratteristiche comuni ad altre patologie: è ereditaria, può essere ciclica e ha cause e conseguenze biologiche. Il mio parere è quindi formato non solo da esperienze personali, ma da ciò che mi è stato detto da professionisti, oltre a quello che ho potuto leggere in libri di divulgazione scientifica. Con pedanteria ho riportato alcuni titoli di questi libri nei miei commenti, al fine di permettere a tutti la verifica di quanto detto. L'infantilismo sta nel porsi in modo ostile verso gli altri, con sconcertante banalità, parlando senza nozione alcuna e alcun tipo di esperienza di vita.
Ex membro
Volevo condividere questo link: https://www.ted.com/talks/elyn_saks_seeing_mental_illness. L'autrice di questo intervento si chiama Elyn Saks, professoressa universitaria di psichiatria, malata di schizofrenia. Seppur la patologia non corrisponda con quanto scritto fino ad ora nella discussione, credo che questo lungo monologo sia egualmente stimolante. Uno dei concetti che vengono ribaditi con maggiore forza dalla professoressa è il seguente: il malato deve comprendere di non essere malattia, ma di avere una malattia. Non fa parte dell'identità del sofferente la sua patologia, anzi la sua identità è sana, incorrotta e pura, al pari di qualsiasi soggetto sano. Il concetto è rassicurante: l'individuo non è la causa del suo malessere. Soffro di depressione ciclica, manifestatasi in due periodi distinti della mia vita, e so che si potrà ancora presentare: non sono io ad innescarla, non è la mia autocommiserazione o il malsano piacere di cadere nel vittimismo; io mi limito a subirla. Le cause non sono imputabili ad alcun mio comportamento, a nessun cattivo insegnamento familiare ne tanto meno alla società in cui vivo. Mi chiedo a cosa possa servire l'analisi. Parlando con il mio psicoterapeuta ho avuto modo di appurare questo: la psicoanalisi è un esercizio di gestione dei sintomi della malattia, che forse può dare anche un piccolo contributo alla sua sconfitta. La psicologia come allenamento per gestire se stessi.
Ex membro
Ieri ho avuto una seduta dallo psicoanalista molto produttiva, che ha forse portato a qualche luce in più, anche se molto deve ancora essere fatto. Volevo condividere con voi l'ultima pagina del mio diario, sperando che le parole del mio psicoterapeuta possano essere di ispirazioni, di aiuto o anche solamente di conforto a tutti voi.
Per quanto parlare da solo mi metta a disagio, anche se ho la consapevolezza delle sue potenzialità, non è questo il mio grande problema, ciò per cui mi sono rivolto a uno psicoterapeuta. Il mio grande problema, grande in termini di tempo più che di spazio, è il continuo vociare su ragionamenti e pensieri oramai vecchi, che sono perfettamente sedimentati nella mia memoria, non destando più alcun entusiasmo. L'esercizio della ripetizione diventa così noia procurata, frustrazione, che mi porta inevitabilmente a stare male. Non solo: la continua ripetizione di fantasie ambientati in un ipotetico futuro, disegnano nella mia mente sogni che sono ben dissonanti dalla realtà e tale dissonanza mi porta all'annichilimento. Forse ho anche capito che la natura dell'ossessione del parlare da solo è un trucco che inconsapevolmente ho adottato per far scemare la mia ansia, un sentimento che mi sta sempre appresso, ingigantendo i miei demeriti e rimpicciolendo i miei pregi. Mi chiedo inoltre da dove possa derivare tutta questa ansia: ho escluso il “movente” familiare, seppur i miei genitori siano ansiosi, perché sono sicuro in cuor mio che non sia loro la colpa. Che sia una mancanza di fiducia verso me stesso? Negli ultimi mesi mi sto riscoprendo molto orgoglioso dei miei pregi e difetti, accettando sempre più la mia persona: vorrei quasi affermare che inizio a stimarmi! Io sinceramente non vedo una causa, o almeno non psicologica: che sia poi totalmente vero quello che ho scritto prima? Che la malattia dell'ansia, come quella della depressione, siano malattie non autoindotte? Se si, che cosa posso fare? In molti commenti ho letto che i farmaci servono a poco, se non sono forse controproducenti.
Vi chiedo come voi riuscite a gestire l'ansia, trasformandola in un sentimento che possa essere utile, ovvero divenendo stimolo a fare sempre di più, sempre meglio, senza mai avere momenti di blocco.
Ex membro
Oggi il sentimento di frustazione è forte. Ho avuto diversi colloqui di lavoro in questi ultimi giorni, che mi hanno caricato positivamente, facendomi di nuovo sentire una persona che può avere successo e raggiugere risultati importanti. Gli esiti sono stati modesti: alcuni si sono rivelati farlocchi, capaci solo di offrire lavori senza garanzie, altri sono più seri ma rivolti a ragionieri non ad economisti. Così dopo quattro colloqui in due giorni mi sento di avere fatto l'ennesimo buco nell'acqua, seppur abbia fatto bella figura nel corso dell'interview. Riesco a dimostrarmi propositivo e reattivo, anche con una buona dose di creatività, dimostro di avere delle qualità importanti, eppure rimane questo eppure. Tutto questo non contribuisce molto al mio stato. Sento l'esigenza di dover scappare da tutto questo, tornando all'estero.
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Ex membro
Volevo iniziare questa discussione per motivi ovviamente personali. Sto soffrendo di un forte stato confusionale, soprattutto di carattere emotivo. Passo da momenti di cupa malinconia a momenti di forte esaltazione. Sento intorno a me qualcosa aleggiare. Non so se sia depressone o meno, ma questo dolore mi gira sempre intorno, mettendomi ansia. Mi attacca con grande violenza, per poi ritirarsi e darmi l'illusione che tutto possa finalmente essere passato. Mi trovo prigioniero di un eterno ritorno. Inoltre sono affetto da una forte eccitazione nervosa, la quale mi impedisce di fare fronte allo stress emotivo che subiamo tutti i giorni: è sufficiente la reazione smodata di una persona, o smodata per la mia percezione della cosa, per piombare in mille pensieri e lamentele personali. L'incapacità di saper gestire emozioni mi porta all'isolamento. L'isolamento a sua volta mi porta a parlare molto da solo e a fantasticare sulla mia vita molto più di quanto vorrei. Il tempo che perdo in questa attività immaginifica è enorme, impedendomi di poter svolgere le attività reali che ho in mente. La mia è una qualche forma di procrastinazione.
Qualcuno si riconosce in questa descrizione? E se si, come vive tutto questo? Che possibilità ci sono di guarire?
Grazie, anche per chi solo ha avuto il tempo di leggere queste parole.
Alessandro